Fra lo Sheraton e la baraccopoli, uno manca nella cartina di Buenos Aires
Di fronte alla stazione “Retiro”, attraversando la strada, c’è un hotel Sheraton. La baraccopoli non si vede dall’entrata, ma i turisti delle camere più in alto possono sicuramente apprezzare l’intera estensione della “Villa 31”. La più antica baraccopoli di Buenos Aires fu creata dallo Stato in una zona centrale della città, molto prima che l’urbanizzazione informale fosse “confinata” nelle periferie. Nascosto da tre grandi stazioni ferroviarie e un terminal di autobus, questo quartiere di 20.000 residenti si è sviluppato lungo i binari del treno, tra il porto e i quartieri più ricchi della città. Nel 1996 la costruzione dell’autostrada “Ilia” sopra la baraccopoli ne ha originato una nuova parte, la “Villa 31 bis”, nella quale le case più alte si affacciano direttamente sulla carreggiata. L’area culmine della gentrificazione della capitale, “Puerto Madero”, non è lontana. Annunci di una prossima apertura di due stazioni della metropolitana, assieme al ciclico tentativo di inserire la baraccopoli nel mercato abitativo tramite la fornitura di certificati di proprietà ai suoi abitanti, fa di Villa 31 la soglia della frontiera della gentrificazione. Una delle modalità di riprodurre la diseguaglianza sociale nelle città è quella di cancellarne una parte. Non a caso, ovviamente, ma colpendo i poveri e le loro case, anche attraverso la cartografia. Le baraccopoli di Buenos Aires, le tristemente note “villas miserias”, sono infatti escluse dalle mappe ufficiali della città, determinando una “invisibilità cartografica” che rinforza la strutturale segregazione dei quartieri più poveri’. La tendenza è generale, ma Villa 31 ne è il miglior esempio.
Le baraccopoli di Buenos Aires sono, ovviamente, “informali”. Ma cos’è l’informalità? Gli studiosi “Global South” Ananya Roy e AlSayyad (2004) considerano l’informalità come qualcosa in più che un settore economico non regolato, descrivendola come una forma di produzione dello spazio che rientra negli obiettivi dello Stato ed è sotto il suo controllo. Oltre la sua apparentemente natura non regolata infatti, l’informalità è una condizione sanzionata in ultima istanza dallo Stato, attraverso la concessione dello status di formalità o informalità. Non a caso le istituzioni sono gli unici attori in grado di operare in maniera informale senza incorrere in conseguenze legali. Esercitando quel potere “extra-legale” che Agamben (1998) ha associato con la sovranità e lo “stato di eccezione”, lo Stato sospenderebbe le norme consuete e userebbe l’informalità per mantenere una iniqua distribuzione del valore dello spazio, promuovendo lo sfruttamento capitalista dell “ambiente costruito”, suddiviso in aree valorizzate e svalutate:
“Lo Stato ha il potere di determinare il momento in cui attuare la sospensione, che cosa è informale e cosa no, e determinare quali forme di informalità prospereranno e quali spariranno.” (Roy 2005, page 149).
Questa forma di accumulazione del capitale, favorita dalla nuova impronta neoliberale sulla produzione dello spazio, può assumere forme differenti, dai processi di gentrificazione e rigenerazione a sgomberi e demolizione di baraccopoli, seguendo la logica della “distruzione creativa”. Mentre nel “Global North” l’urbanizzazione informale rimane l’eccezione, nelle città del “Global South” viene considerata da Roy (2009 page 826) “spesso il modo primario di produzione dello spazio metropolitano nel XXI secolo.”
La teoria dell’informalità nasce nel contesto latino-americano, anche se si è dimostrata rilevante nell’analisi dell’urbanizzazione africana, asiatica e medio-orientale. Nella sua “madrepatria” l’informalità è stata spesso collegata alla teoria della dipendenza, presentando la diffusa urbanizzazione informale delle città latino-americane come un altro effetto del sottosviluppo causato dalla posizione periferica occupata dal continente nell’economia mondiale.
Tuttavia l’attenzione è stata dedicata principalmente allo studio della segregazione urbana (come in Caldeira, “City of walls”, 2000) e alla marginalità, bollata da Janice Perlman (1979) come un “mito” che rappresenta i poveri come soggetti indifesi per poterli meglio sfruttare in qualità di forza lavoro “usa e getta”. All’interno dell’analisi sulla segregazione urbana nelle città latino-americane uno degli aspetti che maggiormente risaltano è “la prossimità tra ricchi e poveri, ma in spazi rigidamente chiusi, che creano una relazione asimmetrica tra le due parti” (Schapira 2001). La Villa 31 e 31 bis aggiornano il concetto classico di muro, sostituito da autostrade e grattacieli, un “assedio dorato” alle vite informali di migliaia di persone.
Un aspetto scarsamente ricercato dell’informalità è la sua rappresentazione cartografica. Anche se molti accademici hanno analizzato l’uso delle mappe come uno “strumento di potere” atto a esercitare il controllo sociale sulle persone, per supportare il colonialismo e le guerre, poca attenzione è stata dedicata al suo collegamento con la riproduzione dell’informalità. Sembra quindi necessario iniziare ad affrontare la questione dell’impatto della cartografia ufficiale sull’informalità, il suo utilizzo da parte dello Stato e la possibilità di un suo “sequestro politico” per obiettivi militanti.
Come molti progetti politici hanno mostrato, infatti, in particolare quelli che si occupano di proteggere comunità indigene, rimane aperto un grande spazio di manovra per un utilizzo delle mappe che contrasti la classica cartografia “alto-basso” e la sua rappresentazione conservatrice dello spazio. In Argentina il più famoso esempio è forse l’attività del collettivo “Iconoclasistas” e le sue “mappe del conflitto”, nelle quali la narrativa del potere è sostituita da quella dei movimenti popolari e degli attivisti, reclamando centralità per le lotte sociali ed ambientali.
Con questi pensieri nella mente e gli occhi fissi sulle tante (troppe) macchie grigie nella mappa di Buenos Aires, alcune questioni ci sorgono spontanee:
Può la cartografia essere una maniera particolare di riprodurre l’informalità attraverso l’invisibilizzazione? Viene usata esclusivamente dallo Stato? Che genere di narrativa simbolica sulle baraccopoli supporta? Ha delle conseguenze pratiche per i suoi residenti? Può essere “rovesciata” al fine di rappresentare le rivendicazioni e le lotte dei suoi abitanti?
Qualcuno laggiù sta cercando di mappare l’informalità.
La conformazione particolarmente “murata dentro” di Villa 31 ben si addice ad una definizione di segregazione urbana di Peter Marcuse (1995): “i muri definiscono spazi (…), definiscono la loro natura e la posizione dei suoi residenti nella gerarchia tra di loro, la gerarchia delle città dentro la città”. C’è un collettivo, però, che sta provando a contribuire alla demolizione di quei muri. Si chiama “Talleres de Urbanismo BArrial” (laboratori di urbanismo di quartiere), e sta svolgendo un’attività di “mappatura popolare” di Villa 31 e 31 bis da cinque anni, con l’obiettivo di realizzare una mappa della baraccopoli prodotta dai suoi abitanti. L’idea originale era quella di fare una finta mappa turistica della città in cui includere le villas, e distribuirla, ma presto il progetto si è evoluto in un impegno nel quartiere a lungo termine, basato su metodi partecipativi.
Dopo una fase iniziale di mappatura attraverso differenti tecniche cartografiche, il gruppo, integrato da adolescenti della baraccopoli, sta attualmente attraversando l’ultimo passaggio del processo di mappatura, quello della “socializzazione” della mappa realizzata. Questo step è chiamato “Mapa abierto” (mappa aperta) e consiste nell’incontrate il più alto numero possibile di organizzazioni del “barrio” per mostrare loro la mappa e discutere correzioni e differenti interpretazioni, con l’obiettivo di aumentare la natura collettiva della produzione cartografica. Il risultato finale del progetto sarà una mappa collettiva da distribuire ai residenti della baraccopoli, con la possibilità di coinvolgere i rappresentanti di altre villas ed espandere il progetto nella città. Pur volendo primariamente affrontare il problema della invisibilizzazione cartografica della baraccopoli, con l’obiettivo di “generare alterazioni nella rappresentazione dello spazio urbano, il suo uso e chi è qualificato ad attraversarlo” (Vitale 2013, page 19), Turba fa la sua parte nella vita politica del barrio. Il processo di mappatura è infatti considerato dal gruppo come la costruzione di uno “strumento” che può essere usato per sostenere diverse campagne degli abitanti di Villa 31, come la lotta per l’urbanizzazione promessa, e mai realizzata, dallo Stato. Il motto è “Urbanizzazione con radicamento”, in contrasto con i numerosi tentativi di sgombero di massa intrapresi in passato.
L’adesione a questo orizzonte politico risponde alla nostra domanda rispetto alla possibilità di “invertire” l’uso della cartografia: si, nonostante l’assenza di Villa 31 dalle mappe ufficiali, o magari grazie a questo, un processo collettivo di mappatura può aiutare a costruire una differente visione della città, in cui le rivendicazioni degli abitanti delle villas occupino una posizione centrale. Cosa ne è però delle altre domande? Questa ulteriore invisibilizzazione delle baraccopoli favorisce la riproduzione dell’informalità? Ha degli effetti pratici o simbolici? L’insieme dell’esperienza di Turba nella Villa 31 dà una risposta positiva alle nostre domande.
Oltre alle motivazioni sociali, politiche ed economiche che hanno storicamente determinato lo sviluppo dell’informalità abitativa, “l’invisibilità cartografica” è infatti riconosciuta come un ulteriore e specifico livello di oppressione e di “trattamento differenziato” tra i diversi quartieri della città, corrispondenti a differenti classi sociali. Le baraccopoli soffrono di una scarsa fornitura di servizi, ritardi nella realizzazione dei programmi di urbanizzazione e un generale disinvestimento economico da parte dello Stato, sostituito da versamenti verso attori del terzo settore. In questo quadro di generale abbandono, la mancanza di un riconoscimento cartografico della struttura interna delle villas produce ulteriori difficoltà, come il concretissimo problema di non avere un indirizzo, fondamentale per ottenere un lavoro. Inoltre, nella percezione dei suoi residenti, l’invisibilizzazione delle baraccopoli ha una conseguenza simbolica, cancellando dalla mappa le case dei lavoratori, pur continuando pero a sfruttarli per svolgere i lavoro più umili, necessari alla economia della città. Una negazione dell’esistenza delle comunità umane e politiche dei villeros, che va di pari passo con la loro stigmatizzazione sociale in quanto “undeserving citizens”, cittadini non meritevoli della loro stessa casa.
La cartografia come arma per il diritto alla città.
Ci sono grandi consonanze tra la situazione di Villa 31 e la teoria del controlla statale dell’informalità. Lo Stato è in grado di determinare lo status di informalità di un insediamento abitativo da un punto di vista legale, legiferando in maniera da istituzionalizzarlo o mantenerlo così com’è, rallentando i programmi di urbanizzazione. Detiene inoltre la capacità esclusiva di applicare a suo piacimento l’informalità: mentre Villa 31 si trova sotto continua minaccia di sgombero a causa della sua natura informale, lo Stato opera spesso all’interno delle baraccopoli utilizzando strutture comunitarie costruite dagli abitanti e mai “formalizzate”. Alcune volte, tuttavia, si mostra benevolo, promettendo ai residenti una istituzionalizzazione attraverso il conferimento di certificati di proprietà delle loro case, ad esempio. Anche in questo caso lo Stato si rivelerebbe tutt’altro che disinteressato, poiché’ dare la possibilità agli abitanti di vendere le proprie case nel mercato immobiliare causerebbe una rapida gentrificazione del quartiere, magari aiutata dalla sua “inesistenza” cartografica. In questi tempi di neoliberismo il monopolio statale sull’informalità può spaziare dal controllo della vita quotidiana delle persone, fornendo o meno l’allacciamento all’acqua, infrastrutture o domicilio, al potere di sfollare intere comunità, direttamente o attraverso l’azione del mercato. Se le mappe possono aiutare a mantenere il controllo dello Stato sulla riproduzione dell’informalità, esse possono però anche essere utilizzate contro questo monopolio, come dimostra l’esperienza di Turba. Qui la mappa diventa infatti uno strumento per sostenere la campagna di “urbanizzazione con radicamento”, iniziando con l’avere un indirizzo, il “diritto di domicilio”.
In questo senso le rivendicazioni dei villeros possono forse essere intese come una lotta per il “diritto alla città”, dove il “diritto a rimanere” (David Harvey, 2012) si incontra con l’istanza di un trattamento egualitario dei cittadini, sia esso l’urbanizzazione delle loro case, o la loro rappresentazione su di una mappa. In una virtuale “agenda cittadina” dei movimenti sociali la cartografia meriterebbe quindi un posto importante, data la sua natura di, contemporaneamente, mezzo per riprodurre la diseguaglianza e per combatterla. In particolare il suo utilizzo sarebbe sicuramente utile per coloro che operano in insediamenti informali, per analizzare l’ambiente in cui si svolge la loro militanza. Ma non si tratta solo di vantaggi pratici. Oltre al fatto di fornire un mappa della baraccopoli con cui poter pianificare attività o esigere specifici interventi di urbanizzazione, altre potenzialità risiedono sotto la superficie della mera rappresentazione cartografica. Espandendo il concetto di cartografia oltre il suo significato letterale, infatti, essa potrebbe essere usato per “mappare” i confini tra la città formale e quella informale, i collegamenti sociali, economici e culturali tra le baraccopoli e i quartieri. L’interdipendenza economica tra le villas e il resto della città potrebbe essere verificata mostrando i percorsi quotidiani di consumo e lavoro dei sui abitanti, mentre lo studio della loro composizione sociale potrebbe sicuramente aiutare nel gettare una luce sulla relazione tra la classe, i flussi migratori e la riproduzione dell’informalità.
Il carattere partecipativo della mappatura popolare sarebbe quindi portato oltre la carta, aggiungendo ad una rappresentazione condivisa della baraccopoli una ricostruzione della sua identità culturale capace di contrastare lo stigma sociale dominante che vede i villeros come cittadini “non meritevoli” (ed invisibili).
Bibliografia
Agamben, G. (1998). Homo sacer: Sovereign power and bare life. Palo Alto, CA: Stanford University Press (original in Italian, 1995)
AlSayyad, Roy, 2004, Urban informality: Crossing borders, Urban informality: transnational perspectives from the Middle East, Latin America, and South Asia, Lexington Books, Lanham.
Caldeira do Rio, T. P., 2000, City of walls: crime, segregation, and citizenship in São Paulo. University of California Press.
Harvey, D. (2012). Rebel cities: from the right to the city to the urban revolution. Verso Books.
Marcuse, P. (1995). Not chaos, but walls: postmodernism and the partitioned city. Postmodern cities and spaces, 49, 245-246.
Perlman, J. E., 1979, The myth of marginality: Urban poverty and politics in Rio de Janeiro. Univ of California Press.
Roy, A., 2005, Urban informality: toward an epistemology of planning. Journal of the American Planning Association, 71(2), 147-158
Roy, A. (2009). The 21st-century metropolis: new geographies of theory.Regional Studies, 43(6), 819-830.
Schapira, Marie France (2001): “Fragmentación espacial y social: conceptos y realidades”, en Perfiles Latinoamericanos , año 10, nº 19, México
Vitale Pablo, 2013, Mapas villeros. Acción colectiva y políticas estatales en asentamientos populares de Buenos Aires, Congress of the Latin American Studies Association, May 29 – June 1, 2013,Washington, DC .