Una delle lezioni più memorabili del corso di Aldo a Scienze Politiche a Milano, “Storia del mondo contemporaneo”, fu quando, non ricordo a partire da che spunto, iniziò a parlarci di come il consiglio docente stesse valutando l’ipotesi di istituire corsi interamente in inglese nella nostra facoltà. La lezione fu dedicata quindi a parlare di imperialismo culturale, di lingua-moneta- diritto, e della sua concezione di internazionalismo. Che non dissolve le differenze culturali in unico codice, quello dominante, ma favorisce il dialogo tra le culture a partire dalla ricchezza specifica di ognuna di esse.
In particolare ricordo che ci redarguì dal seguire quella tendenza nuova
per cui le opere accademiche si scrivono ora in inglese in prima battuta, pensando invece sì a tradurle, ma anche a conservare la produzione intellettuale nella lingua originaria, onde evitare di impoverirla enormemente.
Da quella lezione sono passati alcuni anni, i corsi interamente in inglese nella mia ex facoltà sono effettivamente cominciati, nel frattempo io mi sono laureato, ho studiato in Inghilterra, una laurea specialistica, ed ora studio in Argentina, dove insegno anche italiano. Per tutti questi motivi quando ho letto e aderito all’appello di Anna Maria Testa “Dillo in Italiano” non ho potuto che pensare ad Aldo, e a quella lezione che mi ricordavo così bene.
Ho per questo apprezzato molto il suo articolo sul tema, che esprime l’esigenza, sempre più forte, di correre ai ripari contro l’omologazione del linguaggio politico, e non solo, al modello anglosassone. In particolare mi interessa il caso specifico dell’università.
La lontananza da casa, si sa, aumenta il sentimento d’identità culturale, ma aiuta anche a vedere alcune cose con più chiarezza.
A Leeds, in uno dei dipartimenti di geografia più progressisti al mondo, leggono molti autori italiani. Il problema è che conoscono (a volte osannano, la produzione culturale italiana, soprattutto quella degli anni ’60-’70, è molto apprezzata) solo gli autori che sono stati tradotti in inglese o quelli che (come Negri, ad esempio), ormai scrivono praticamente direttamente in inglese, determinando una parziale distorsione della varietà e profondità della produzione nazionale. Da Gramsci ad Agamben, passando per Massimo De Angelis, Antonio Conti, Gigi Roggero, Raniero Panzieri la bibliografia del corso era ricca di opere italiane, o meglio delle loro versioni inglesi. Questo “sguardo distratto” della accademia anglosassone sulla nostra produzione riguarda ovviamente anche altri contesti culturali, ossia praticamente tutti quelli che non sono anglofoni, dalla Francia al Sudamerica. In poche parole, se non è in inglese “non esiste”.
A Buenos Aires, dove mi trovo ora, la bibliografia della specialistica in Relazioni Internazionali alla quale sono iscritto è quasi interamente in inglese. Ovvio, si dirà, stiamo parlando di una disciplina che ha origine e sviluppo principalmente nel mondo anglosassone (e alla quale l’Italia non apporta se non in minima parte), non potrebbe perciò essere altrimenti. Probabilmente è cosi, come del resto è normale che solo un paio dei miei professori abbia terminato il suo dottorato in Argentina, mentre agli altri nomi si accompagna una sfilza di università’ inglesi e statunitensi, intervallata da qualche istituzione brasiliana o francese. E pensare che qui fino a qualche anno fa i professori universitari avevano solo la laurea, al massimo un master, mentre ora i non dottorati sono una rarità.
Non credo che la mia traiettoria personale abbia alcunché’ di rilevante, penso però che sia, nel suo piccolo, la concretizzazione di quella omogeneizzazione culturale di cui Aldo mi parlava in classe anni fa. Un cerchio che si chiude idealmente ritornando col pensiero a Milano e ai suoi nuovi corsi in inglese. Esito che non può che confermare quanto studiato a Leeds nei corsi sulla progressiva aziendalizzazione, o meglio, neoliberalizzazione, dell’università, assieme a tutto il resto della società e valida ovviamente anche per il nostro paese.
Una “inserzione schizofrenica” nel modello universitario di marca anglosassone, con i corsi in inglese (saranno semplicemente i nostri programmi “tradotti”, con il rischio delle figuracce da Telegraph, o corsi “inglesi”, con il risultato di perdere autonomia concettuale, che vengano a mancare i propri termini per “dire le cose” in italiano, nelle diverse discipline?) ma un sistema di crediti e di lauree europeo, il “processo Bologna” che esiste solo sulla carta. Lauree specialistiche che sono la continuazione della triennale e non sono pensate, come in Inghilterra, a specializzarsi in una professione. Un modello che si basa sui Journals e gli articoli accademici mentre in Italia, in vari settori, prevale ancora la pubblicazione di libri.
Una tendenza, insomma, ad “internazionalizzarsi” senza puntare sulla propria ricchezza e specificità, semplicemente adattandosi a “come viene la mano”, come direbbero in Argentina.
Per questo, con qualche stupore, leggo che “[…] qualcuno già parla di punteggi preferenziali per le pubblicazioni in inglese.“
Forse non sarà ancora così per la stragrande maggioranza dei professori italiani, molti dei quali, entrati in servizio decenni fa, non hanno nemmeno una pubblicazione in inglese, così come esperienze di insegnamento all’estero. E forse continuerà così per molto tempo ancora, dato il ritmo con cui il turnover docente procede nelle nostre università.
Ma, distogliendo per un’istante lo sguardo dalla condizione degli organici attuali, e guardando più in là dei confini nazionali, la situazione è già cambiata per chi aspira ad entrare nel mondo universitario oggi.
I dottorandi (o aspiranti tali) italiani all’estero e in patria sanno già benissimo che se non pubblichi nella lingua dominante, almeno in alcune discipline, non esisti. “Publish or perish”, in inglese, non a caso.
Le “call for papers” per i convegni sono in inglese, e in inglese si deve presentare il proprio lavoro. Qualsiasi concorso che prevede un minimo grado di selezione internazionale presuppone un qualche precedente accademico in inglese. I corsi universitari di più alto livello (nelle università pubbliche come nelle private) hanno docenti di provenienze diverse, se non oltreconfine quantomeno interne al paese, e ovviamente la “lingua franca” è quasi sempre l’inglese.
Questi elementi, seppur lentamente, non potranno che affiorare prepotentemente anche in Italia, perché’ il modello accademico in cui il nostro paese è inserito va in quella direzione.
Per questo il semplice rigetto dell’inglesizzazione dell’università, come in tutti gli altri campi, da solo non basta. Tanto più’ che proprio l’accademia vive del continuo confronto tra produzioni diverse, tra scuole diverse, ed è innegabile che questo scambio, quando c’è, avviene oggi principalmente attraverso la lingua inglese. Ai cambiamenti, soprattutto quando non dipendono da noi come in questo caso, si può reagire in due modi: passivamente o, e ci auguriamo che sia questo il caso, attivamente.
L’obiettivo dev’essere restituire dignità internazionale alla quarta lingua più parlata al mondo e alla sua cultura senza incorre in una “asfittica autarchia”.
Come, quindi, applicare lo spirito dell’appello “Dilloinitaliano” alla accademia e ai giovani studenti in particolare?
Come conciliare la produzione di conoscenza autoctona e in italiano senza “uscire dal giro”? Occorre pensare ad una doppia linea di pubblicazione in italiano e in inglese? Occorre fortificare la qualità e la presenza delle riviste italiane nei ranking mondiali? Avere una area più forte di insegnamento dell’inglese, anche specialistico, senza però tradurre interi corsi dall’italiano?
Qual è il tipo di internazionalizzazione della nostra università che vogliamo? Come si fa a cambiare senza snaturarsi?
Domande che valgono per tutti, e maggiormente per chi si trovi fuori dalle trincee che proteggono l’autoriproduzione gattopardesca della nostra accademia e fosse interessato a produrre conoscenza, anche ma non solo all’università, in italiano ma senza rinunciare a lottare per un posto nella mischia del confronto culturale internazionale.