Quello che segue e’ un estratto di un lungo articolo scritto per un dossier sull’uso politico della storia, prossimamente in uscita sul sito aldogiannulli.it. Clicca qui per leggere la versione estesa.
Fra le prime ipotesi sulla rinuncia di Milani, una è quella di un litigio dovuto alla mancata conferma da parte del ministro della difesa Augustin Rossi della promozione da parte di Milani del colonnello Marcelo Oscar Granitto, a causa del parere negativo del Centro de Estudios Legales y Sociales (CELS), organismo dei diritti umani che “vaglia” i curriculum dei militari prima che siano nominati per alti incarichi.
Esulta la leader delle Madri di Plaza de Mayo- Linea Fundadora Nora Cortiñas, che in dicembre aveva presentato un “heabeas corpus” perché Milani si presentasse davanti alla giustizia per rispondere anche della desaparicion del figlio Gustavo. Mentre Hebe de Bonafini, presidentessa delle altre “Madri” qualifica le accusazioni di “illazioni” per liquidare il militare e far danno al governo.
Da questo singolo evento, filtrato attraverso la triangolazione esercito-governo-movimenti sociali, emergono alcune delle caratteristiche principali dell’utilizzo che i governi del kirchnerismo hanno fatto della storia e della memoria. E si intrecciano due dei filoni principali di questa narrativa Nacional y Popular: Malvinas e il tragico lascito della dittatura.
Il 24 Marzo e la dittatura militare.
Il 24 di Marzo di ogni anno si ricorda il golpe militare che destituisce Isabelita Peron e pone le redini del paese nelle mani della triade Videla-Massera-Agosti, dando il via a 7 anni di violazioni sistematiche dei diritti umani che culmina con il drammatico bilancio di circa 30.000 desaparecidos, tramilitanti di sinistra, studenti e lavoratori.
Il ricordo e la commemorazione militante di quella data è stata per lunghi anni appannaggio quasi esclusivo della sinistra di base, in un lunghissimo periodo di inerzia politica statale in cui ogni tentativo di giudicare i militari veniva sistematicamente fermato.
Anche il trentennale del colpo di stato, nel 2006, non ha fatto eccezione.
Gradualmente pero, il governo di Nestor Kirchner, instauratosi nel 2003, assume il tema dei diritti umani come centrale nella nuova politica rispetto alla dittatura.
Questa nuova attenzione passa attraverso alcuni gesti esemplari e coraggiose politiche di Stato.
Il 24 Marzo del 2004 Nestor Kirchner, in occasione del primo anniversario del golpe da presidente, ordina la rimozione dei quadri di Videla e Bignone, primo e ultimo presidente de facto della dittatura, che ancora campeggiavano nella “galleria dei direttori” del collegio militare.
I passi concreti invece, sono cominciati con l’annullamento delle leggi “punto finale” e “obbedienza dovuta” da parte del congresso nel 2003, poi ratificata dalla corte suprema nel 2005, e proseguiti con il dispiegarsi di una agenda politica dei diritti umani senza precedenti nella Argentina democratica. I processi sono di conseguenza ripartiti, e nonostante le innumerevoli difficoltà nel condurli si è giunti finora alla condanna in 250 casi su 1886 secondo i dati del CELS, che fin dal 1979 assiste legalmente le famiglie deidesaparecidos.
Il “nuovo corso” kirchnerista ha portato alla convergenza massiva della maggior parte delle organizzazioni sociali che militavano nel campo dei diritti umani sotto l’ombrello del governo e garantito il loro appoggio esplicito al suo operato. L’emissione, lo scorso Marzo, di un biglietto da cento pesos con l’effige di una “Madre” avvolta nel caratteristico fazzoletto bianco ne è al tempo stesso il sigillo e uno degli aspetti più polemici.
Non mancano infatti le critiche di chi considera “l’allineamento” di queste associazioni al governo, e in generale quello dei gruppi di militanza di base sorti nel post-dittatura e durante la crisi del 2001, come un abile ed estenso programma di “cooptazione” delle istanze sociali indipendenti.
L’adesione delle “Madres de plaza de mayo” guidate da Hebe de Bonafini alla linea del governo, ha rinforzato una divisione in seno al movimento dei familiari dei desaparecidos che ha origini negli anni ´80, e che ora si fonda su differenti valutazioni della politica dei diritti umani del kirchnerismo e il bisogno di mantenersi autonomi dalla sua azione.
La nomina del militare a Capo di Stato Maggiore dell’Esercito argentino il 3 luglio 2013 è uno degli esempi migliori dei chiaroscuri della politica del governo sui diritti umani, e delle divisioni che questa ha creato all’interno dei movimenti sociali.
La linea ufficiale del governo era garantista: finche´ non ci sono condanne l’imputato viene considerato innocente e rimane in carica. L’opposizione e le associazioni dei diritti umani sottolineavano pero come l’incarico ricoperto da Milani lo “proteggesse” dall’avanzare dei processi, offrendogli una forte copertura, se non legale quantomeno politica.
Sullo sfondo, la complessa questione della trasformazione dell’esercito e della polizia nel periodo democratico: la permanenza in carico di migliaia di agenti utilizzati ai tempi della dittatura si aggiunge a quanto resta da fare nell’esercito che, seppur “ridimensionato” dai tagli di Menem, rimane tutt’altro che depurato dalla presenza dei militari che violarono i diritti umani durante il “processo di riorganizzazione nazionale”.
Malvinas, “un posto nel nostro cuore e non solo”.
Il fatto che il nuovo Comandante in Capo dell’esercito sia un reduce di Malvinas non pare essere un caso, ed è sicuramente una scelta di potente valore simbolico. Il kirchnerismo si libera allo stesso tempo di un ospite diventato scomodo e lo sostituisce con Cundom, che ai tempi della guerra era ufficiale di complemento e semplice pilota di elicottero, quindi “eroe” non assimilabile alle scelleratezze compiute della cupola militare verso i propri soldati.
Con il kirchnerismo il tema delle isole “irredente” ha riacquistato una centralità nel discorso politico che non si osservava dalla dittatura.
Lo scorso 10 Giugno, per esempio, la presidentessa Cristina Kirchner tracciava nel suo discorso dal Museo delle Malvinas una linea retta tra la rivendicazione sulle isole e la questione “fondi buitres”, in nome della sovranità nazionale. La questione della sovranità si unisce alla denuncia delle vestigia del colonialismo occidentale e in particolare britannico nel mondo, di cui molti esempi sono concentrati nel continente sudamericano. Fondamentale anche il discorso sulle risorse naturali, dal petrolio alla florida industria della pesca, che lo Stato argentino considera usurpati dai kelpers, gli isolani, e dal Regno Unito.
Questa retorica “nazionale e popolare” ha sostenuto a livello discorsivo la ripresa della offensiva diplomatica a livello internazionale per il recupero delle isole. Assieme alla fine dell’embargo cubano, il tema Malvinas è ora indiscutibile priorità regionale, puntualmente reiterata nei vertici dei paesi del continente, e anche gli Stati Uniti hanno dovuto (mal)digerirla.
Ultimamente la questione si è riaccesa in seguito alle rivelazioni di Snowdensullo spionaggio realizzato dai britannici a danno del governo argentino tra il 2006 e il 2011 e dall’annuncio di un ammodernamento totale delle difese dell’isola, minacciate da un fantomatico riarmo argentino.
Se nei primi anni del kirchnerismo il tema non aveva rappresentato particolare rilevanza, a partire dal 2010 occupa uno spazio crescente nel discorso pubblico del governo, accompagnato da gesti come l’apertura del museo, la creazione di una segreteria dedicata all’interno del Ministero degli Esteri, la creazione di una banconota da 50 pesos commemorativa del reclamo e maggior impulso al processo di identificazione dei corpi argentini senza nome sepolti sulle isole.
Senza dubbio questo attivismo dei kirchner, presidenti “malvineros” in quanto di origine patagonica, e l’incorporazione del tema nel progetto di “Memoria, verità e giustizia”, nasconde alcune rimozioni importanti.
Dimostra una relazione con il passato “sospesa nel tempo e nello spazio” in cui si avverte una mancata riflessione sul quel repertorio simbolico nazionale in relazione alle isole a cui si continua a ricorrere quando si afferma che le Malvinas “erano, sono e saranno argentine”. Che è lo stesso lignaggio storico a cui si appellarono per motivare la guerra quei militari che contemporaneamente conducevano un “genocidio” in patria, e perseguivano i soldati impiegati al fronte con maltratti e sevizie. Che arruolarono forzatamente i diciottenni poveri e prevalentemente di origine indigena, i “cabecitas negras”, e li mandarono al massacro senza armamenti e vettovaglie sufficienti.
Il museo, la retorica, unisce precedenti tanto diversi della lotta storica per il recupero delle isole che appaiono inconciliabili.
Come si chiede lo storico Federico Lorenz: “Può un paese che emerge da una dittatura con la decisione di (auto)giudicar(si) sostenere un repertorio nazionalista e patriottico come quello delle Malvinas senza chiedersi fino a che punto quello stesso non fu all’origine delle violenze della dittatura stessa?”
Si puo’ evitare di chiedersi cosa sarebbe successo se quella guerra fosse stata invece vinta, conducendo ad un probabile intervento militare anche contro il Cile, che degli inglesi era socio di minoranza? Di quale Argentina staremmo ora parlando se quel successo, come accaduto per la Thatcher, avesse finito per rinforzare il regime militare, mutando la storia recente del paese?
Alcune riflessioni.
Assistiamo all’impiego di una potente retorica, che utilizza la storia più o meno recente dell’Argentina per incorniciare la agenda politica del kirchnerismo.
Ciò non toglie, ovviamente, che molte di queste scelte politiche siano state coraggiose e abbiano avuto effetti positivi senza precedenti.
L’ascesa al potere di Nestor Kirchner ha significato in questo senso un vero e proprio spartiacque con i governi precedenti, riportando il tema dei diritti umani alla centralità che merita e facendone oggetto di politiche pubbliche ammirabili. Ha promosso la riapertura dei processi contro i genocidi e la ricerca dei figli di desaparecidos appropriati dai militari, affrontando il tema della dittatura e di tutte le sue barbarie come nessun altro paese della regione. Un confronto tra la società e il suo recente passato che in Italia o in Spagna, per esempio, non è avvenuto.
Sta realizzando tutto questo a suon di potenti dosi di retorica, che sono pero in ogni caso preferibili al silenzio, alla rimozione o alla aperta difesa del “processo di riorganizzazione nazionale” che ancora qualcuno si azzarda a fare.
Ha trasformato delle ricorrenze che vedevano due ali di folla applaudire una sfilata militare in piazze piene di gente normale, attenuando la forte militarizzazione delle celebrazioni di Stato. Soprattutto, ha prodotto un ribaltamento culturale per cui i musei, le manifestazioni culturali, la radio e la televisione si occupano ora del passato con uno sguardo critico e non più subalterno a modelli culturali importati che descrivono l’Argentina come una chiassosa e discola alunna che non resta al suo posto, in fondo alla classe, a fare i compiti che le assegnano.
Questa versione della storia, seppur ben radicata nel paese dopo 12 anni di governo “K”, non potrà durare in eterno, intonsa. Dovrà fare i conti con i cambiamenti politici che la elezioni del prossimo autunno porteranno con se’. Mentre il candidato del Fronte Per la Vittoria Daniel Scioli, recentemente recuperato al kirchnerismo, sembra essere guarito daitentennamenti che aveva avuto in passato nel condannare la dittatura, il principale oppositore, l’ex sindaco di Buenos Aires Mauricio Macri, ha abbandonato le sue perplessità sulla recuperazione delle Malvinas solo all’alba della campagna elettorale. Non ci sono temi sacri, quindi, ne “politiche di Stato” che non possano essere modificate all’occorrenza, supportate da una lettura della storia argentina radicalmente differente.
Fra le prime ipotesi sulla rinuncia di Milani, una è quella di un litigio dovuto alla mancata conferma da parte del ministro della difesa Augustin Rossi della promozione da parte di Milani del colonnello Marcelo Oscar Granitto, a causa del parere negativo del Centro de Estudios Legales y Sociales (CELS), organismo dei diritti umani che “vaglia” i curriculum dei militari prima che siano nominati per alti incarichi.
Esulta la leader delle Madri di Plaza de Mayo- Linea Fundadora Nora Cortiñas, che in dicembre aveva presentato un “heabeas corpus” perché Milani si presentasse davanti alla giustizia per rispondere anche della desapariciondel figlio Gustavo. Mentre Hebe de Bonafini, presidentessa delle altre “Madri” qualifica le accusazioni di “illazioni” per liquidare il militare e far danno al governo.
Da questo singolo evento, filtrato attraverso la triangolazione esercito-governo-movimenti sociali, emergono alcune delle caratteristiche principali dell’utilizzo che i governi del kirchnerismo hanno fatto della storia e della memoria. E si intrecciano due dei filoni principali di questa narrativa Nacional y Popular: Malvinas e il tragico lascito della dittatura.
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Nel tentativo di indagare sulla rilevanza del centenario della prima guerra mondiale a queste latitudini, abbiamo riscontrato due questioni principali.
La prima è che l’anniversario della prima guerra mondiale è stato “celebrato” in maniera del tutto sommessa, trattando tutt’ al più episodi bellici collaterali avvenuti in questo emisfero o della recessione economica dovuta all’interruzione degli scambi commerciali con l’Europa.
L’altra è che l’applicazione del concetto di uso politico della storia all’Argentina spalanca le porte su di una ricca tradizione di rapporti complessi tra storia e politica, alcuni con attualissima rilevanza, e di scontro tra correnti storiografiche.
Cerchiamo qui brevemente di riprendere’ e di “rilocalizzare” -geograficamente e culturalmente- i concetti espressi da Aldo nei suoi articoli sulla storia per anniversari e il suo utilizzo politico.
L’Argentina indipendente, si sa, è un paese giovane, anche se nominalmente più antico del nostro. A differenza dell’Italia, però, non ha un passato popolato da civilizzazioni, culture e lingue che attraverso i millenni ne hanno forgiato un presunto “carattere nazionale”. O meglio, i popoli originari- che già di per se avevano lasciato meno “tracce” non avendo sviluppato società assimilabili ai Maya, Aztechi o Inca- sono stati cancellati dalla storia nazionale dal colonialismo spagnolo e dall’esercito argentino.
Celebre il motto “civilizzazione o barbarie” dello scrittore e politico Domingo Faustino Sarmiento, che giustifico da un punto di vista culturale la “campagna del deserto” con cui il presidente Roca porto a termine la sostanziale eliminazione delle popolazioni araucanos e tehuelches e l’espansione dello Stato argentino nella regione pampeana e patagonica alla fine del diciannovesimo secolo.
Il bisogno di “inventarsi” una storia e un carattere nazionale delle élite dell’Argentina indipendente si sviluppa quindi in base a due caratteristiche fondamentali: il suo essere basato sulla memoria di guerra (di decolonizzazione, di conquista, difensiva) e sul complicato rapporto con “l’altro” europeo, fosse esso l’ex centrale coloniale spagnola o le influenze commerciali, culturali e migratorie inglesi, francesi ed europee in generale (tra le quali rilevante è la italiana, dato il fortissimo impatto demografico dei flussi migratori provenienti dal nostro paese).
Questo processo “creativo”, comune alle prime fasi di consolidamento di qualsiasi stato-nazione, ha avuto in Argentina un carattere costituente e un forte impatto su tutti gli aspetti della vita sociale, culturale e politica. La toponomastica celebra i nomi dei proceres, i padri della patria, in ogni via, stazione, autostrada e paesello e non a caso le due date più importanti del calendario argentino sono tuttora il 25 Maggio e il 9 Luglio, rispettivamente l’anniversario della istituzione del primo governo autonomo (1810) e della dichiarazione di d’indipendenza (1816).
Ne deriva che l’idea di nazione come “soggetto collettivo primario” è ancora necessariamente al centro dell’immaginario politico argentino. Non diluita, anzi in qualche mondo amplificata, dalle correnti “panamericaniste” che da Bolivar in poi hanno teorizzato il Sudamerica (e, in parte l’America Latina) come un tutt’uno.
Naturalmente, il “disordine mondiale” è ben percepito anche da questa sponda dell’oceano, con la differenza che il peculiare periodo politico che il paese e buona parte del continente sta vivendo, unito agli avanzamenti dell’integrazione regionale, continuano ad avere sullo sfondo il richiamo alla centralità dello Stato nazionale e alla “patria”.
In breve, le domande del presente hanno molto da chiedere alla storia nazionale, e il kirchnerismo, quella forma di peronismo del XXI secolo di difficile definizione, ha dimostrato di saper usarla per rispondere.
Lo sa bene la presidenta Cristina Kirchner, che il 25 Maggio passato parlava dal palco di una affollatissima Plaza de Mayo, il ventunesimo discorso dall’inizio dell’anno trasmesso a reti unificate.
Celebrava il duecentocinquesimo anniversario della Revolución de Mayo, l´ultimo da presidentessa, ma anche il dodicesimo anniversario dalla entrata in carica del defunto Nestor Kirchner, ex presidente. Come sempre, la retorica mischiava abilmente la storia patria, i successi degli ultimi 13 anni e il presente della battaglia politica.
Il nome di Nestor è un mantra. Le sue parole, le immagini di quando era lui a guidare il paese, accompagnano ogni discorso della presidenta, ma anche i politici kirchneristi di ogni grado, perfino gli alleati di governo di altri spazi politici, ne fanno uso obbligatorio quando sono davanti ad un microfono o ad una telecamera. A soli 4 anni dalla morte, centri culturali, centrali nucleari, autostrade, borse di studio e manifestazioni di ogni tipo portano il nome di Nestor.
Il kirchnerismo si inserisce nella corrente storiografica argentina del “revisionismo”, che ha avuto rapporti altalenanti con il peronismo e lo stesso Peron, e che prevede la rivalutazione storica di figure “nazionaliste” screditate dalla storiografia ufficiale, “liberale ed esterofila”.
Nell’attualità si osserva quindi una sorta di “aggiornamento” di una tendenza peronista classica, il recupero della storia patria, della gloria dei suoi comandanti e presidenti, associata alla mitizzazione dei dirigenti peronisti, con la mistica di Peron ed Evita.
Il parallelo fra la antica coppia presidenziale e la kirchenrista cementa questa unione, mentre la principale organizzazione di base del kirchnerismo sceglie di chiamarsi la “Campora” come il presidente peronista che nel 1973 si dimise per permettere il ritorno al potere di Peron di ritorno dall’esilio spagnolo.
La stessa Cristina è attualmente il centro concettuale di questo universo di riferimento.
Come recita lo slogan: Nestor con Peron, el pueblo con Cristina.
Nestor già’ La Storia, Cristina continua la sua opera, che è quella di Peron.
Il “popolo” è la guida e la fonte del potere.
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L’agglomerato politico-culturale che si è agglutinato attorno a Nestor Kirchner dal 2003 ha attinto a piene mani al patrimonio simbolico “nazionale e popolare” proprio del peronismo e alla sua lettura della storia patria, dalla indipendenza in poi.
Inoltre, e qui risiede buona parte della sua forza di rottura rispetto ai governi precedenti, ha saputo unire alla memoria nazionale “classica” quella dei tempi oscuri più recenti, della dittatura militare e la guerra delle Malvinas.
E l’ha saputa “mettere in scena”: dalle stratosferiche celebrazioni per il bicentenario del 25 Maggio 2010, con le quali si voleva riportare alla memoria l’orgia di opere pubbliche realizzate nel 1910, alla stampa della banconota con l’effige di Eva Peron, fino all’apertura del Museo di Malvinas nel 2014 e del controverso centro culturale “Nestor Kirchner” quest’anno.
Il tutto condito da un uso massiccio della “cadena nacional”, i messaggi a reti unificate, utilizzata in occasione di ogni anniversario rilevante e che si accompagna ad una sovrapposizione sempre più evidente tra commemorazioni pubbliche ed eventi di partito, con la ingombrante partecipazione delle organizzazioni di base legate al kirchnerismo in primo piano.
Due gli esempi che illustrano nella forma migliore le differenze marcate dai governi del Fronte Per la Vittoria rispetto ai predecessori, nel loro rapporto con la storia: la politica di “Memoria, verità e giustizia” riguardo alla violazione sistematica dei diritti umani durante la dittatura militare (1976-1983) e il revival del tema “Malvinas”.
Il 24 Marzo e la dittatura militare.
Il 24 di Marzo di ogni anno si ricorda il golpe militare che destituisce Isabelita Peron e pone le redini del paese nelle mani della triade Videla-Massera-Agosti, dando il via a 7 anni di violazioni sistematiche dei diritti umani che culmina con il drammatico bilancio di circa 30.000 desaparecidos, tramilitanti di sinistra, studenti e lavoratori.
Il ricordo e la commemorazione militante di quella data è stata per lunghi anni appannaggio quasi esclusivo della sinistra di base, in un lunghissimo periodo di inerzia politica statale in cui ogni tentativo di giudicare i militari veniva sistematicamente fermato. Proprio un 24 Marzo, nel 1987, segna una battuta d’arresto nel processo di democratizzazione: il presidente radicale Raul Alfonsin annuncia la promulgazione della legge di “Obbedienza dovuta”, con la quale si riconoscono differenti responsabilità nella violazione dei diritti umani a seconda dei gradi occupati nell’esercito e si rinforza l’effetto di deterrenza ai processi ai torturatori garantito dalla legge “punto finale” promulgata sei mesi prima. Ciononostante, per tre anni si assiste a cicliche insurrezioni nelle caserme da parte dei militari “carapintadas”, cosi chiamati per il fatto di tingersi la faccia di nero, che destabilizzano il governo e puntano a ritardare i processi contro membri dell’esercito. I colpi più duri alla verità storica stabilita dalla commissione nazionale sui desaparecidos con il memoriale “Nunca mas” (mai più) arrivano pero con i governi neoliberali di Carlos Menem negli anni ’90: le esigenze politiche conducono alla grazia anche per condannati all’ergastolo del calibro di Videla, Massera e di Leopoldo Galtieri, il comandante in capo ai tempi del massacro delle Malvinas.
Anche il trentennale del colpo di stato, nel 2006, non ha fatto eccezione.
Gradualmente pero, il governo di Nestor Kirchner, instauratosi nel 2003, assume il tema dei diritti umani come centrale nella nuova politica rispetto alla dittatura.
Questa nuova attenzione passa attraverso alcuni gesti esemplari e coraggiose politiche di Stato.
Secondo i murales della “Campora”, la più capillare tra le organizzazioni di base che nascono per sostenere il nuovo ciclo, Nestor Kirchner “Tirando giù un quadro ha formato migliaia di militanti”. Si riferiscono ad uno degli episodi diventati leggendari nella epopea del defunto presidente che cambiava le regole alla Casa Rosada.
Il 24 Marzo del 2004 Nestor Kirchner, in occasione del primo anniversario del golpe da presidente, ordina infatti la rimozione dei quadri di Videla e Bignone, primo e ultimo presidente de facto della dittatura, che ancora campeggiavano nella “galleria dei direttori” del collegio militare.
I passi concreti invece, sono cominciati con l’annullamento delle leggi “punto finale” e “obbedienza dovuta” da parte del congresso nel 2003, poi ratificata dalla corte suprema nel 2005, e proseguiti con il dispiegarsi di una agenda politica dei diritti umani senza precedenti nella Argentina democratica. Che ha toccato tutti gli aspetti della vita culturale, sociale e politica del paese, moltiplicando i luoghi di memoria, includendo le organizzazioni dei diritti umani, Madri e Nonne di Plaza de Mayo in prima fila, trasformando in definitiva la tematica in politica di Stato.
I processi sono di conseguenza ripartiti, e nonostante le innumerevoli difficoltà nel condurli si è giunti finora alla condanna in 250 casi su 1886 secondo i dati del CELS, che fin dal 1979 assiste legalmente le famiglie dei desaparecidos.
Il “nuovo corso” kirchnerista ha portato alla convergenza massiva della maggior parte delle organizzazioni sociali che militavano nel campo dei diritti umani sotto l’ombrello del governo e garantito il loro appoggio esplicito al suo operato. L’emissione, lo scorso Marzo, di un biglietto da cento pesos con l’effige di una “Madre” avvolta nel caratteristico fazzoletto bianco ne è al tempo stesso il sigillo e uno degli aspetti più polemici.
Non mancano infatti le critiche di chi considera “l’allineamento” di queste associazioni al governo, e in generale quello dei gruppi di militanza di base sorti nel post-dittatura e durante la crisi del 2001, come un abile ed estenso programma di “cooptazione” delle istanze sociali indipendenti. Ancora una volta, peronismo rivisitato.
Addirittura Strassera, il giudice che si occupo delle prime cause ai tempi del presidente Alfonsin, ha accusato in passato il kirchnerismo di rallentare i processi per mantenere il tema dei diritti umani vivo e sfruttabile come “bandiera” politica.
L’adesione delle “Madres de plaza de mayo” guidate da Hebe de Bonafini alla linea del governo, ha rinforzato una divisione in seno al movimento dei familiari dei desaparecidos che ha origini negli anni ´80.
Se infatti le “Madres de plaza de mayo-linea fundadora” si sono separate nel 1986 dalla sezione di Bonafini per l’autoritarismo di quest’ultima e maggior volontà di dialogo con il governo di Alfonsin, dall’ascesa di Nestor Kirchner la contrapposizione è dovuta a differenti valutazioni della politica dei diritti umani del kirchnerismo e del bisogno di mantenersi autonomi dalla sua azione.
Mentre le “Madri” di Bonafini e le “Nonne” di Carlotto (parente dello scrittore italiano Massimo Carlotto) compaiono spesso accanto a Cristina negli eventi ufficiali, le “Madri” di Cortiñas si tengono a distanza e in occasioni come quella del processo a Milani si schierano contro il governo.
La nomina del militare a Capo di Stato Maggiore dell’Esercito argentino il 3 luglio 2013 è uno degli esempi migliori dei chiaroscuri della politica del governo sui diritti umani, e delle divisioni che questa ha creato all’interno dei movimenti sociali.
La linea ufficiale del governo era garantista: finche´ non ci sono condanne l’imputato viene considerato innocente e rimane in carica. L’opposizione e le associazioni dei diritti umani sottolineavano pero come l’incarico ricoperto da Milani lo “proteggesse” dall’avanzare dei processi, offrendogli una forte copertura, se non legale quantomeno politica.
Un altro caso è invece meno conosciuto, eppure molto più preoccupante. Alla viglia della sua testimonianza nella citta de La Plata contro il commissario Miguel Etchecolatz, processato per “genocidio”, il 18 settembre 2006 il muratore Jorge Julio Lopez desaparece per la seconda volta, dopo essere stato imprigionato tra il 1976 e il 1979.
A poco più di un anno dalla annullazione delle leggi di amnistia per i delitti commessi durante la dittatura, la sparizione di un imputato chiave in un processo al direttore di un centro di tortura clandestino è inaccettabile, una ferita dolorosa.
Eppure, nonostante i movimenti sociali denuncino immediatamente il carattere politico del rapimento, il governo rinuncia a classificarla come nuova “desaparicion”. Inoltre si critica la scarsa protezione ricevuta da Lopez e la lentezza delle ricerche, che avrebbero dovuto puntare diritto a quegli apparati di sicurezza dello Stato restii a dare conto del loro operato durante la dittatura. A distanza di nove anni, la sparizione di Lopez non trova spazio nel discorso ufficiale, impegnato a ricordare che “ora nessuno può più sparire”.
Oltre a Lopez, sono pero molti i “desaparecidos en democracia”. Applicando il concetto di “sparizione” ai numerosi episodi di violenza da parte della polizia avvenuti su giovani dei quartieri poveri negli ultimi anni, nei quali spesso all’omicidio segue l’occultamento del corpo, i movimenti sociali denunciano infatti l’ipocrisia della retorica dei diritti umani del governo, rivolta al passato ma senza interesse per il presente.
Il punto di contatto tra la violenza di Stato nei quartieri poveri, tra la repressione delle comunità indigene e la dittatura è la mancata riforma delle forze di sicurezza. La Coordinadora contra la represion policial e institucional (Correpi) calcola in più di 2.500 gli “omicidi di Stato” compiuti dal 1983, di cui più di 1.000 durante i governi del kirchnerismo.
La permanenza in carico di migliaia di agenti di polizia utilizzati ai tempi della dittatura si aggiunge a quanto resta da fare nell’esercito che, seppur “ridimensionato” dai tagli di Menem, rimane tutt’altro che depurato dalla presenza dei militari che violarono i diritti umani durante il “processo di riorganizzazione nazionale”, come dimostra il caso di Milani. Infine, come ha portato alla luce il “caso Nisman” nel Gennaio scorso, i servizi segreti sono il settore della sicurezza che più è riuscito a mantenere la continuità durante la democrazia, venendo riformato solo superficialmente. I suoi forti legami con la dittatura e i servizi di paesi esteri, l’enorme potere accumulato al suo interno da personaggi come Stiusso, tollerato dal kirchnerismo finche’ non si è trasformato in un nemico, lo spionaggio ai danni dei movimenti sociali vicini al governo e non, ne fanno una pesante zavorra alla democratizzazione dello Stato e al raggiungimento del pieno rispetto dei diritti umani in ogni loro forma.
Malvinas, “un posto nel nostro cuore e non solo”.
Il fatto che il nuovo Comandante in Capo dell’esercito sia un reduce di Malvinas non pare essere un caso, ed è sicuramente una scelta di potente valore simbolico. Il kirchnerismo si libera allo stesso tempo di un ospite diventato scomodo a causa dei processi a cui è sottoposto, Milani, e lo sostituisce con Cundom, che ai tempi della guerra era ufficiale di complemento e semplice pilota di elicottero, quindi “eroe” non assimilabile alle scelleratezze compiute della cupola militare verso i propri soldati.
Due sono le date che nel calendario ritualizzano il riaccendersi della questione Malvinas.
Il 10 Giugno è conosciuto come il giorno della riaffermazione dei diritti argentini sulle isole Malvinas, Georgia del Sud e Sandwich del Sud e gli spazi marini circostanti. La ricorrenza è stata creata nel 1973 durante il secondo peronismo, per ricordare la nomina, il 10 giugno 1829, di Luis Vernet come “Primo Comandante Politico Militare” delle isole, durante il breve periodo di controllo argentino (1820-1833) fra l’abbandono da parte degli spagnoli e l’occupazione britannica.
L’altro anniversario importante è il 2 Aprile, che dal 2000 è “Giorno del veterano e dei caduti nella guerra di Malvinas”, essendo il giorno in cui nel 1982 incominciavano le operazioni militari per lo sbarco argentino sulle isole.
Con il kirchnerismo il tema delle isole “irredente” ha riacquistato una centralità nel discorso politico che non si osservava dalla dittatura.
Lo scorso 10 Giugno, per esempio, la presidentessa Cristina Kirchner tracciava nel suo discorso dal Museo delle Malvinas una linea retta tra la rivendicazione sulle isole e la questione “fondi buitres” (i fondi speculativi che vogliono riaprire il piano di rinegoziazione e restituzione del debito), in nome della sovranità nazionale. La questione della sovranità si unisce alla denuncia delle vestigia del colonialismo occidentale e in particolare britannico nel mondo, di cui molti esempi sono concentrati nel continente sudamericano. Fondamentale anche il discorso sulle risorse naturali, dal petrolio alla florida industria della pesca, che lo Stato argentino considera usurpati dai kelpers, gli isolani,e dal Regno Unito.
Questa retorica “nazionale e popolare” ha sostenuto a livello discorsivo la ripresa della offensiva diplomatica a livello internazionale per il recupero delle isole. Assieme alla fine dell’embargo cubano, il tema Malvinas è ora indiscutibile priorità regionale, puntualmente reiterata nei vertici dei paesi del continente, e anche gli Stati Uniti hanno dovuto (mal)digerirla.
Ultimamente la questione si è riaccesa in seguito alle rivelazioni di Snowden sullo spionaggio realizzato dai britannici a danno del governo argentino tra il 2006 e il 2011 e dall’annuncio di un ammodernamento totale delle difese dell’isola, minacciate da un fantomatico riarmo argentino.
La posizione inglese rispetto al tema si basa sull’aperto rifiuto da parte degli isolani di rinunciare alla cittadinanza britannica, esemplificato dall’inequivocabile esito del referendum tenuto nel 2013. Gli argentini hanno dalla loro il precedente storico di essere stati i primi a governare le isole dopo il colonialismo spagnolo, e, in accordo con alcune risoluzioni della Onu, considerano i kelpers coloni e non soggetti con diritto alla autodeterminazione. La questione è nelle mani del comitato di decolonizzazione delle Nazioni Unite. Senza dubbio, la guerra del 1982 complica la questione.
Il 10 Giugno dell’anno passato, inaugurando il Museo, la “costruzione storica in onore alle Malvinas più importante della Repubblica Argentina “, la presidentessa sottolineava la sua ubicazione, nel sito di memoria della ex Scuola Militare.
Il museo condivide cosi gli spazi, fisicamente e simbolicamente, con le installazioni dedicate a ricordare il destino delle migliaia di prigionieri torturati ed eliminati nelle celle della scuola militare. Nelle sue parole, la ubicazione sarebbe la più idonea perché “[…] abbiamo deciso che questa costruzione, questo Museo, avesse un posto in questo sito di memoria, nella ex ESMA, per quello che o appena detto, che la storia non si può frammentare e nemmeno prendere con beneficio di inventario. E noi che abbiamo nella memoria uno dei pilastri fondamentali delle nostre politiche abbiamo voluto realizzarlo qui. “ .
Dire che la storia “non si possa frammentare” è una potente dichiarazione programmatica sul come il kirchnerismo intende utilizzarla, oltre ad essere in contraddizione con il progetto di “revisionismo storico” peronista che mira proprio a rivendicare personaggi ed eventi della storia nazionale a discapito di altri. Nel caso di Malvinas, l’operazione è quella di recuperare lo storico reclamo argentino di sovranità sulle isole “depurandolo” da quanto accaduto durante la dittatura e della guerra che ne scaturì, assimilandolo alla politica sui diritti umani. Si ottiene così una narrazione “monca”, tutt’altro che integrale.
Grande attenzione è posta nel sottolineare come le piazze gremite di gente che inneggiava all’invasione delle Malvinas per recuperarle fosse animata più dai ideali nazional-patriottici in senso antiimperialista e anticolonialista che dall’intenzione di appoggiare l’operato della dittatura. Si afferma la natura pacifica, democratica e diplomatica della attuale gestione del reclamo mentre allo stesso tempo si rivendica il carattere popolare dell’esercito, che se non ha trionfato in quella guerra è proprio perché non ha combattuto a fianco del “popolo” ma contro di esso.
Si prende l’impegno a che Malvinas sia per sempre una politica di Stato non suscettibile di modifica da parte del governo, senza dimenticare pero’ di esaltare i momenti più autenticamente peronisti della saga. Come “L’operativo Condor”, il sequestro di un aereo il 28 Settembre 1966 con cui un gruppo di militanti peronisti sbarca sulle isole e issa la bandiera argentina, in polemica con la dittatura di Ongania, il quale si trovava in quel momento in Scozia. Il tutto, condito con l’esaltazione acritica di personaggi storici come il Gaucho Rivero, una sorta di primo nazionalista argentino che avrebbe combattuto gli inglesi subito dopo l’occupazione per alcuni, criminale comune per altri.
Se nei primi anni del kirchnerismo il tema non aveva rappresentato particolare rilevanza, a partire dal 2010 occupa uno spazio crescente nel discorso pubblico del governo, accompagnato da gesti come l’apertura del museo, la creazione di una segreteria dedicata all’interno del Ministero degli Esteri, la creazione di una banconota da 50 pesos commemorativa del reclamo e maggior impulso al processo di identificazione dei corpi argentini senza nome sepolti sulle isole.
Senza dubbio questo attivismo dei kirchner, presidenti “malvineros” in quanto di origine patagonica, e l’incorporazione del tema nel progetto di “Memoria, verità e giustizia”, nasconde alcune rimozioni importanti.
Dimostra una relazione con il passato “sospesa nel tempo e nello spazio” in cui si avverte una mancata riflessione sul quel repertorio simbolico nazionale in relazione alle isole a cui si continua a ricorrere quando si afferma che le Malvinas “erano, sono e saranno argentine”. Che è lo stesso lignaggio storico a cui si appellarono per motivare la guerra quei militari che contemporaneamente conducevano un “genocidio” in patria, e perseguivano i soldati impiegati al fronte con maltratti e sevizie. Che arruolarono forzatamente i diciottenni poveri e prevalentemente di origine indigena, i “cabecitas negras”, e li mandarono al massacro senza armamenti e vettovaglie sufficienti.
Il museo, la retorica, unisce precedenti tanto diversi della lotta storica per il recupero delle isole che appaiono inconciliabili.
Come si chiede lo storico Federico Lorenz: “Può un paese che emerge da una dittatura con la decisione di (auto)giudicar(si) sostenere un repertorio nazionalista e patriottico come quello delle Malvinas senza chiedersi fino a che punto quello stesso non fu all’origine delle violenze della dittatura stessa?”
Si puo’ evitare di chiedersi cosa sarebbe successo se quella guerra fosse stata invece vinta, conducendo ad un probabile intervento militare anche contro il Cile, che degli inglesi era socio di minoranza? Di quale Argentina staremmo ora parlando se quel successo, come accaduto per la Thatcher, avesse finito per rinforzare il regime militare, mutando la storia recente del paese?
Inoltre, recuperare a tutti i costi “ciò che e nostro”, è un motto che oscura una riflessione sul rapporto storico tra l’Argentina e le isole, le modificazioni avvenute in seguito all’intervento militare e la realtà attuale, il rapporto che si vorrebbe costruire con esse.
Molti reduci lamentano che probabilmente ora le Malvinas sarebbero già tornate sotto sovranità argentina da un pezzo, nell’ambito delle “restituzioni” da parte del Regno Unito sul modello Hong Kong, se non ci fosse stato l’intervento militare.
Sicuramente la guerra ha stravolto le relazioni tra i kelpers e l’Argentina per sempre. Prima della guerra gli isolani andavano a curarsi nel continente, le difese militari dell’isola erano minime e l’attenzione inglese per quei tremila pastori pressoché nulla. La guerra, le esigenze della Thatcher e la scoperta dei giacimenti di petrolio hanno trasformato le isole in un avamposto militare della Nato, in cui c’è un soldato per ogni abitante e piovono finanziamenti da Londra, in particolare per le spese militari.
La visione degli isolani come “occupanti” che è l’unico spazio che la retorica nazionalista lascia ai kelpers, stride con il passato coloniale e le modalità di popolamento adottate nella stessa argentina, non dissimili dalla colonizzazione delle isole da parte britannica. Alle perplessità sulla relazione che si intenderebbe stabilire con gli abitanti, che hanno cultura, lingua e stile di vita totalmente differenti dagli argentini, si aggiunge il tema delle risorse naturali. Lo Stato argentino sta sviluppando a proposito il concetto di “Pampa Azzurra”, l’Atlantico del sud come uno spazio strategico per la realizzazione di iniziative scientifiche, grazie alla ricchezza della fauna e flora locale, minacciata dalle estrazioni petrolifere. Il mantra de “ci stanno rubando il petrolio e rovinando fauna e flora” pare ancora una volta una parola d’ordine assunta acriticamente. Se è vero che non una sterlina dei profitti derivanti dall’estrazione di petrolio e del controllo della pesca finisce attualmente a Buenos Aires, è lecito chiedersi come lo sfruttamento di quelle risorse sarebbe più “sostenibile” se le Malvinas fossero argentine. Come in occasione del duro scontro diplomatico riguardo alla cartiera “Botnia” con l’Uruguay che contaminava i fiumi argentini, mentre si mantenevano impianti molto più inquinanti nell’interno del paese, il nazionalismo discorsivo pare servire ad oscurare alcuni problemi più che ad affrontarli.
Il tentativo di inscrivere il tema Malvinas nella ampia politica sui diritti umani lascia infine un altro nodo irrisolto, i reduci: eroi, vittime o entrambe le cose?
“Eroi” tradizionalmente lo sono tutti, quelli che non sono mai tornati lo sono anche ufficialmente. In realtà, come spesso accade, il ritorno a casa per i reduci di guerra è stato duro, soprattutto per i soldati di leva, che non avevano pensione di guerra ne stipendio militare e faticavano a trovare lavoro, soffrendo inoltre di ferite fisiche e psicologiche. Il clima da sconfitta militare e fine dittatura li oscurò. In particolare vi era molta diffidenza nei loro confronti da parte delle associazioni dei diritti umani, che li associavano indistintamente alla dittatura. I loro reclami si indirizzavano in quel periodo infatti non attraverso il canale dei diritti umani e della democratizzazione, ma attraverso la giustizia militare, alla quale reclamavano i maltrattamenti subiti e di poter essere chiamati a testimoniare, come i loro superiori, sulle vicende della guerra. Consideravano gli ufficiali colpevoli di “alto tradimento” per non averli messi nelle condizioni di vincerla.
Con Nestor Kirchner al potere la situazione cambio’.
Nel 2004 il neo-presidente triplico’ l’importo delle pensioni di guerra che erano state assegnate nel 1988, oltre ad estendere ai reduci i benefici sociali dei lavoratori statali, come la assicurazione medica. Durante lo stesso anno si realizzo un censimento che rilevo’ che dei 25.528 veterani il 43% era senza casa e il 36% soffriva di problemi di salute.
La maggior parte delle associazioni dei veterani è concorde nel riconoscergli di aver dato nuova centralità al tema della guerra e dignità ai combattenti.
Kirchner è riuscito soprattutto a far confluire le loro rimostranze nell’arena dei diritti umani, abbattendo la barriera con le organizzazioni dei parenti dei desaparecidos e altre. Su impulso presidenziale nel 2007 alcune associazioni di veterani presentarono denuncia per i maltrattamenti subiti durante la guerra come crimini di lesa umanità, quindi imprescrittibili, e si avviavano trattative per il riconoscimento dei defunti senza nome sepolti nel cimitero di Darwin, nelle Malvinas.
Mentre la collaborazione per le ricerche sugli “N.N.” senza nome prosegue a rilento, il tentativo di ottenere dei processi per maltratto è naufragato contro la decisione della Corte Suprema di Giustizia per la quale i casi presentati non potevano essere classificati come lesa umanità´. Nel Marzo di quest’anno la presidentessa Cristina Kirchner invitava comunque i veterani a non desistere e rivolgersi alla Corte Interamericana de Diritti Umani della Organizzazione degli Stati Americani.
La scelta di collocare il Museo delle Malvinas in un luogo tanto significativo per la storia della dittatura e delle violazioni dei diritti umani in Argentina come la ex Scuola Militare dell’Esercito (ESMA) e’ quindi una decisione congruente alla lettura delle vicende della storia recente che fa il kirchnerismo e al suo modo di integrarle alla storia nazionale.
Los veteranos de Malvinas sono presentati quindi allo stesso tempo come eroi E vittime, salvando il principio del reclamo di sovranità sopra le isole e condannando i comandi militari. Mal guidato, vessato e torturato dai dittatori nelle caserme e nelle piazze, sul incrociatore “Belgrano” affondato come nei centri di tortura, il popolo ha lottato contro la duplice tirannia dei Videla e dei Massera e contro l’imperialismo britannico. La storia non si può frammentare.
Alcune riflessioni.
Il 24 Marzo 2015 alle tre e mezza, la piazza del Congresso è già piena. La folla non è distribuita omogeneamente, si trova concentrata agli angoli, divisa per spezzoni e gruppi, con le proprie bandiere, striscioni e diverse tonalità di rosso. L’esigenza di “assicurarsi la posizione” nel corteo, ancorché’ previamente sorteggiata, fa sì che i primi militanti siano arrivati almeno a mezzogiorno. La gran presenza di griglie disseminate da ogni parte assicura in ogni caso che l’attesa non è stata a digiuno.
Bisognerà aspettare per qualche ora ancora, anche se ufficialmente sarebbe già il momento in cui il corteo si compatta e muove verso la Casa Rosada, marciando lungo tutta Avenida de Mayo e attraversando la Nueve de Julio, la via più larga del mondo, con il caratteristico obelisco e l’enorme effige di Evita che sorride da un grattacielo.
Invece sono già le sei e mezza quando, lentamente, la testa della manifestazione comincia a muoversi. Quando finalmente arriva alla Plaza de Mayo, trova il palco del comizio dei gruppi del oficialismo, vicini al governo, e i resti delle celebrazioni di Stato.
Lungo il percorso, ci si è imbattuti più volte in macchie di bianco e azzurro di imbandierati che tornavano a gruppi dalla stessa piazza. A parte alcune occhiate torve e i cordoni che delimitano in ogni momento i confini tra un corteo e l’altro, non succede niente. Anzi, spesso ci si ferma per far attraversare la strada ad uno di questi gruppi e succede più di una volta che le persone si stacchino dalle rispettive formazioni per salutarsi, infrangendo la simbolica divisione che i servizi d’ordine vorrebbe mantenere senza eccezioni.
In ogni caso, se il corteo non è partito prima è perché da anni ormai le celebrazioni del 24 Marzo si sono divise (almeno) in due, con i cortei più grossi che si contendono la piazza e convocano manifestazioni allo stesso orario. Spesso, come questa volta, il comizio “ufficiale” ha di fatto la precedenza, e il servizio d’ordine ritarda appositamente la partenza dell’altro corteo in una quieta guerra di posizione. Che spesso si è invece fatta sonora e visibile: negli anni passati ci sono stati numerosi episodi minori di scontri per chi avesse precedenza, a Buenos Aires e altrove.
E’ questo un altro effetto, concreto e tangibile, della “discesa in campo” dello Stato in occasione delle ricorrenze che riguardano la dittatura, sovrapponendosi alle manifestazioni indipendenti che si realizzano dagli anni ’80. Spesso il comizio “istituzionale” non si distingue da un evento partitico della coalizione di governo, che impiega ingenti risorse per riempire le piazze dei suoi militanti e utilizza i messaggi a reti unificate e la tv pubblica per mediatizzarlo. Lo stesso accade, d’altra parte, nelle più tradizionali celebrazioni del 25 di Maggio o il 9 di Luglio.
Il kirchnerismo tenta di prendersi tutto, nello spettacolo pubblico della storia.
E lo fa in una maniera peculiarmente peronista, rappresentando il “popolo” in una forma pura e indistinta, omogenea, come contrapposto alla “oligarchia”. Una storia che, come dice Cristina Kirchner “è una sola e non si frammenta”.
Naturalmente, la simbologia sacramentale si aggiorna, con Nestor e Cristina novelli Peron ed Evita, cosi come la rappresentazione dicotomica della società si adatta ai tempi del neoliberismo degli anni ’90 e all’attuale resistenza contro i fondi speculativi stranieri e i monopoli mediatici locali. Il kirchnerismo emerge da questa narrazione come il “campione del popolo” che lo ha riportato alla dignità e ha riguadagnato la sovranità nazionale, e si presenta implicitamente come unico rappresentante di tutte le istanze sociali.
Questa polarizzazione terminologica e politica, pero’, finisce per uccidere la critica e asseconda una artificiale omogeneizzazione degli interessi della società, che fa torto ad una analisi storica sincera.
E cosi che la dittatura diventa una tirannia contro il “popolo” argentino, e si tralascia il sostegno di parte della classe media e di varie formazioni politiche al golpe. Cosi’ come la “normalizzatora” guerra ai poveri che porta con se’, con la distruzione delle baraccopoli nelle città e il ritorno forzato alle provincie d’origine nell’interiore. Per non dire di uno dei classici scheletri nell’armadio del peronismo: cosa sarebbe successo se Peron non fosse morto nel 1974 e avesse continuato l’opera di repressione della sinistra iniziata al suo ritorno un anno prima, e poi continuata su grande scala dai militari antiperonisti? La mancanza di analisi della origine della dittatura e dell’appoggio ricevuto da vasti settori della società permette poi di separarla dalla guerra di Malvinas, di cui si condanna la gestione ma non il principio, e si separa l’istituzione delle Forze Armate dalla sua cupola.
La stessa semplificazione trova eco nella retorica, ancora giovane a causa del poco tempo passato, sugli anni del neoliberismo di Menem. Classe media inferocita per la perdita dei risparmi e associazioni di disoccupati sono uniti, assieme con le fabbriche recuperate, in un unico “calderone” popolare in cui ci sono i “poteri forti” e “gli argentini”, gli oligarchi che vogliono vendere la patria e chi vuole difenderla.
Ancora una volta, il vasto sostegno di settori della classe media a Menem e soprattutto il ruolo svolto dal Partito Giustizialista, la formazione politica cardine di tutti i governi peronisti, nell’appoggiare le sue politiche, è assente dalla discussione.
Siamo di fronte quindi ad una potente retorica, che utilizza la storia più o meno recente dell’Argentina per incorniciare la agenda politica del kirchnerismo.
Ciò non toglie, ovviamente, che molte di queste scelte politiche siano state coraggiose e abbiano avuto effetti positivi senza precedenti.
L’ascesa al potere di Nestor Kirchner ha significato in questo senso un vero e proprio spartiacque con i governi precedenti, riportando il tema dei diritti umani alla centralità che merita e facendone oggetto di politiche pubbliche ammirabili. Ha promosso la riapertura dei processi contro i genocidi e la ricerca dei figli di desaparecidos appropriati dai militari, affrontando il tema della dittatura e di tutte le sue barbarie come nessun altro paese della regione. Un confronto tra la società e il suo recente passato che in Italia o in Spagna, per esempio, non è avvenuto.
Sta realizzando tutto questo a suon di potenti dosi di retorica, che sono pero in ogni caso preferibili al silenzio, alla rimozione o alla aperta difesa del “processo di riorganizzazione nazionale” che ancora qualcuno si azzarda a fare.
Ha trasformato delle ricorrenze che vedevano due ali di folla applaudire una sfilata militare in piazze piene di gente normale, attenuando la forte militarizzazione delle celebrazioni di Stato. Soprattutto, ha prodotto un ribaltamento culturale per cui i musei, le manifestazioni culturali, la radio e la televisione si occupano ora del passato con uno sguardo critico e non più subalterno a modelli culturali importati che descrivono l’Argentina come una chiassosa e discola alunna che non resta al suo posto, in fondo alla classe, a fare i compiti che le assegnano.
Questa versione della storia, seppur ben radicata nel paese dopo 12 anni di governo “K”, non potrà durare in eterno, intonsa. Dovrà fare i conti con i cambiamenti politici che la elezioni del prossimo autunno porteranno con se’. Mentre il candidato del Fronte Per la Vittoria Daniel Scioli, recentemente recuperato al kirchnerismo, sembra essere guarito dai tentennamenti che aveva avuto in passato nel condannare la dittatura, il principale oppositore, l’ex sindaco di Buenos Aires Mauricio Macri, ha abbandonato le sue perplessità sulla recuperazione delle Malvinas solo all’alba della campagna elettorale. Non ci sono temi sacri, quindi, ne “politiche di Stato” che non possano essere modificate all’occorrenza, supportate da una lettura della storia argentina radicalmente differente.
L’anno prossimo correrà il duecentesimo anniversario della dichiarazione di indipendenza (9 Luglio 1916) e il trentennale del golpe militare (24 Marzo 1976), due commemorazioni fondamentali per osservare che ruolo avrà la storia nel nuovo corso politico che si sta aprendo e la resistenza del modello installato dal kirchnerismo anche su questo versante.