Brasile potenza: Sub-imperialismo o nuovo imperialismo?

Nel suo penultimo libro, “Brasil Potencia. Entre la integración regional y un nuevo imperialismo” (l’ultimo e’ “Preservar y compartir. Bienes comunes y movimientos sociales”, con Michael Hardt), inedito in Italia, il giornalista e scrittore uruguaiano Raul Zibechi abbandona per un attimo l’analisi dei movimenti sociali sudamericani per dedicarsi alla novità geopolitica più rilevante per il continente dalla fine della guerra fredda: l’inarrestabile ascesa del Brasile Potenza.

La sua lettura è di quelle che infastidiscono non poco la sinistra nostrana, accesa sostenitrice del “ciclo progressista” sudamericano dell’ultimo decennio. Sono stati infatti proprio i governi del Partito dei Lavoratori, secondo Zibechi, a resuscitare quel progetto di egemonia continentale brasiliana che, nato sotto i militari, aveva ricevuto una battuta d’arresto negli anni ’90 delle privatizzazioni del governo neoliberale di Cardoso. Lula prima e Dilma poi sono stati capaci di farne una strategia completa, irreversibile e dotata di una base economica e sociale ampia, sostenuta da una alleanza interclassista che va dalle multinazionali di casa propria ai sindacati.

L’idea, come sostiene la Scuola Nazionale di Difesa (dove peraltro ha studiato l’élite della borghesia industriale brasiliana) è sempre quella: il Brasile è, per motivi demografici, geografici, di possesso delle risorse energetiche e di sviluppo economico, la potenza indiscussa del continente latinoamericano. Uno “status” rafforzato dall’indebolimento di Argentina e Messico, e soprattutto dalla perdita di influenza statunitense nell’area. Fare il salto di qualità, diventare un player mondiale a tutti gli effetti (possibile ora anche grazie alla alleanza Brics), dipende non solo dalla sua capacità di proteggere l’amazzonia dalle mire di Washington ed espellerla militarmente dal continente, una sorta di “dottrina Monroe” alla rovescia, ma anche e soprattutto di rafforzarsi come leader regionale di un Sudamerica integrato politicamente ed economicamente.
Il PT (Partito dei Lavoratori) è stato in grado di posizionare il paese su questi binari, invertendo la tendenza storica all’assoggettamento geopolitico agli Stati Uniti.

Il contesto è quello di una congiuntura economica particolarmente favorevole, dovuta non solo alla crisi del 2008, che ha permesso alle aziende brasiliane (e cinesi) di rimpiazzare nell’area quelle europee e nord-americane in sofferenza, ma anche delle crisi regionali antecedenti, nel 2001 in Argentina e nel 2002 in Uruguay. Dove le multinazionali brasiliane hanno fatto man bassa, conquistandone i mercati e intraprendendo una concentrazione dei capitali senza precedenti.
Non si tratta tuttavia di una “spiacevole conseguenza” della autonoma globalizzazione del capitale, quanto di uno dei punti della strategia del progetto “Brasile in 3 tempi 2007, 2015, 2022“, lanciato dal Nucleo Questioni Strategiche (NAE) creato da Lula nel 2003. Fra i vari obiettivi del programma, di natura sociale, politica, culturale, militare ed economica, l’aumento del numero di multinazionali brasiliane è considerato una necessità per fare del Brasile una superpotenza. Ed è infatti la mission perseguita dal BNDES, il potentissimo fondo di sviluppo statale che ha un budget di spesa più alto della banca mondiale e finanzia progetti in tutta la regione (e in africa occidentale) con un duplice obiettivo. Sviluppare le catene produttive e commerciali necessarie al paese per organizzare l’economia del continente attorno alle sue necessità, esportando in maniera più redditizia le sue merci verso Cina ed Europa, ed aumentare la presenza internazionale delle imprese brasiliane, le uniche ammesse alle gare d’appalto per le opere realizzate coi prestiti del fondo. Una dinamica, quella dei prestiti “interessati”, che secondo Zibechi ricalca in tutto e per tutto la tradizionale strategia delle banche statunitensi ed europee e degli organismi internazionali (Banca mondiale, Fondo monetario). Il Pac, il piano di accelerazione economica, e la IIRSA (Iniziativa di Infrastruttura per la Regione Sudamericana), immenso progetto continentale di infrastrutture che secondo alcuni ricalca la struttura della defunta ALCA a direzione statunitense, seguono la stessa logica: integrare l’economia sudamericana al servizio dell’industria brasiliana, all’interno dell’architettura politica dell’Unasur e del Mercosur.

Proprio il turbinoso sviluppo economico del “Brasile Potenza”, fatto di grandi opere infrastrutturali e di collegamento, di centrali idroelettriche e della costruzione delle moderne piattaforme di estrazione petrolifera del “pre-sal”, i nuovi giacimenti individuati negli ultimi anni, ha portato allo scoperto un’altra contraddizione, quella del rapporto tra il governo e i sindacati. La cifra politica più descrittiva dell’egemonia PT è infatti, secondo Zibechi, “l’allargamento dell’élite al potere”. Oltre ad aver coinvolto nella gestione del paese gli imprenditori e le forze politiche di opposizione (checche’ ne dicano i candidati della destra), il “Lulismo” ha favorito una poderosa avanzata dei sindacati negli ambiti del potere economico e finanziario. Non solo attraverso le elezioni di un numero senza precedenti di deputati e senatori provenienti dalla dirigenza sindacale e dal ruolo svolto da molti di essi come ministri o sottosegretari, ma anche e soprattutto attraverso lo strapotere acquisito dai fondi pensione dei maggiori sindacati (aziende petrolifere, bancari, insegnanti), azionisti di maggioranza delle più grandi imprese del paese. Lo stesso BNDES attinge in parte al “fondo di protezione” pagato dai lavoratori e destinato a finanziare gli assegni di disoccupazione e i programmi di reinserzione lavorativa. E’ cosi che, attraverso società statali o i fondi pensione, lo Stato controlla direttamente o indirettamente la totalità dei grandi progetti del Pac e dell’IIRSA, e, come nota Zibechi, non è un caso che i sindacati siano intervenuti nei numerosi e aspri conflitti sorti in questi ultimi anni attorno alle grandi opere per fare da “paciere” e far ripartire i cantieri. Come successo ad esempio nel novembre 2011, quando gli operai della diga di Belo Monte, la cui costruzione causerà oltretutto l’espulsione dall’area di 50.000 fra indigeni e contadini, iniziarono uno sciopero di protesta contro 138 licenziamenti e per rivendicare migliori condizioni di lavoro. Dopo una settimana di agitazione, su pressione della centra sindacale “Forca Sindical”, lo sciopero termino’.

In generale, però, basta l’intervento dello Stato, che provvede ad inviare la polizia militare per sedare le proteste, con tanto di incendio di alloggi, dei lavoratori, come accaduto nel marzo 2011 ai cantieri delle dighe amazzoniche di Jirau e Santo Antonio, sul fiume Madera.

La tutela statale alle aziende brasiliane si estende però ben oltre confine. Bastino a titolo di esempio i casi di Paraguay e Bolivia. Nell’ottobre 2008 le esercitazioni militari di confine delle forze brasiliane vennero denunciate dal presidente Fernando Lugo come forma di pressione sul governo, che stava trattando con Brasilia l’aumento della sua partecipazione economica agli utili della centrale di Itapu’, in territorio paraguaiano. Negli stessi giorni il ministro degli esteri brasiliano Celso Amorim invitava Asuncion a mettere un freno alle occupazioni di terra di proprietà di latifondisti brasiliani, che arrivano a controllare il 50% della proprietà e il 90% delle coltivazioni nella zona nord del paese antistante alla frontiera.
In Bolivia le proteste popolari del dicembre 2010 contro il gasolinazo, l’aumento improvviso del prezzo del prezzo della benzina (72%) e diesel (82%), hanno gettato luce sui risultati delle nazionalizzazioni compiute nel settore energetico. La produzione della benzina, e la possibilità di stabilirne i prezzi, rimane largamente in mano alla Petrobras, che controlla la fase più lucrativa, quella della trasformazione del grezzo in carburante. Forti pressioni della diplomazia brasiliana sul governo di La Paz ci furono invece durante la negoziazione con le comunità locali che si opponevano alla costruzione di una autostrada all’interno del TIPNIS, un parco nazionale amazzonico. Ancora una volta il progetto fa parte dell’IIRSA, è finanziato dal BNDES e verrà realizzato dall’impresa di costruzione brasiliana OAS.

Zibechi, pur ammettendo che l’espansione del capitale non si tramuta necessariamente in imperialismo, sottolinea la pericolosità di questo inedito blocco impresari-stato-sindacati, sostenuto esternamente dalla forza militare e internamente dall’effetto “pacificatore” dei piani sociali. Dall’aggressività di questa nuova alleanza espansiva ri-nasce anche l’immagine del Sudamerica “cortile di casa”, ora in chiave brasiliana e non più nordamericana, ruolo che molti dei paesi vicini stanno polemicamente cominciando ad auto-attribuirsi nel quadro della strategia di Brasilia.
Un decreto del 2008 di Lula, in cui il concetto di “aggressione straniera” viene ambiguamente esteso, ci riporta al programma del NAE, che prevede ovviamente anche aspetti militari. Nel 2007 la “strategia nazionale di resistenza” che aveva come punto focale la difesa dell’amazzonia e delle sue risorse dalle mire dell’unilateralismo statunitense, con l’impiego anche di strategie di guerriglia sullo stile vietnamita, diventa “strategia nazionale di difesa”. L’amazzonia non perde la sua centralità geostrategica, ma l’attenzione è ora rivolta anche alla difesa dei giacimenti petroliferi “pre-sal” al largo delle coste brasiliane, nonché’ degli interessi nazionali (leggi imprese) nel continente e in africa occidentale. Il nuovo piano, oltre a prevedere un ingente aumento della spesa militare e degli effettivi, volto anche a “bilanciare” il posizionamento delle forze armate nel paese dislocandole massicciamente nella parte centrale (e amazzonica), ha l’obiettivo di usare accordi bilaterali per ottenere trasferimenti di tecnologia sulla quale detenere il controllo totale. Attraverso le forniture francesi e russe si tenta cioè di “bypassare” la tradizionale dipendenza dall’industria statunitense per quanto riguarda approvvigionamento e patenti.
Con forti investimenti sul rinnovamento tecnologico degli arsenali, il Brasile ha già in parte colmato il grande gap che lo separava da altri paesi, e sta costruendo caccia, elicotteri e sottomarini (nucleari e non) di ultima generazione.

Il dibattito

Partendo dall’analisi di Ruy Mauro Marini, esiliato in Messico durante tutto il periodo della dittatura, che al Brasile degli anni ’60-70 assegnava il ruolo di paese “subimperialista”, una sorta di “poliziotto” degli Stati Uniti egemone nella regione ma ad essi subordinato a livello economico e militare, il dibattito si apre quindi sulle diverse interpretazioni del momento storico e geopolitico del gigante sudamericano.

Lo spettro delle analisi, pur segnalandosi in generale una preferenza per il concetto di “sub-imperialismo”, è ampio. Va dalla permanenza del Brasile in una fase sub-imperialista, come in Mathias Luce Seibel, dove la ri-primarizzazione dell’economia in corso, il dominio del latifondo a monocoltura e una “specializzazione economica regressiva” manterrebbero il paese in una fase di dipendenza dal capitale estero, uno sub-imperialismo ora “social-liberale” in virtu’ del governo del PT, alla teoria “capital-imperialismo” di Virginia Fontes. Dove l’impulso alla accumulazione di capitale è diventato, nella sua fase neoliberale, “tentacolare e totalitario. Un capitale che “può sopravvivere solo espandendosi e divorando nuovi spazi, facendo leva sulla forza militare” e non e più essere identificato in una forza “esterna” che penetra il paese.
In Brasile, tuttavia, la borghesia manterrebbe un ruolo subalterno agli interessi stranieri, e in questa “contraddizione sottile” tra imperialismo brasiliano e straniero risiederebbero le possibilità concrete per i movimenti sociali continentali di liberarsi ad un tempo del giogo del capitalismo nord-americano e di quello nazionale.
Chi propende invece nettamente per una avvenuta “autonomizzazione” del capitale nazionale è Joâo Bernardo, che identifica nella crisi del 2008 la spallata finale a tutti i “sub”, sfruttata a dovere dalla “tecnoburocrazia” statale, in alleanza con l’esercito e le multinazionali brasiliane, per imboccare con decisione la via all’imperialismo. Questo “capitalismo burocratico”, che accomunerebbe i paesi Brics (Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica), permette, attraverso finanziamenti pubblici e la “pacificazione sociale” ottenuta tramite i piani redistributivi, di saldare per la prima volta in maniera compiuta l’espansionismo del capitale brasiliano e della élite statale sotto le insegne della strategia nazionale.

Zibechi avverte che per qualificare il Brasile come “imperialista” occorrerebbe osservare la coesistenza di alcuni fattori, fra cui il manifestarsi di una precisa volontà imperialista del Brasile e la disponibilità dei suoi vicini a sottomettervisi. E che il momento è ancora forse prematuro per poter trarre conclusioni definitive, anche se il concetto di imperialismo, fatte alcune precisazioni, è valido.

In ogni caso assicura che lo scontro dicotomico tra “regionalizzazione e integrazione”, dove la prima è intesa come pura e semplice sottomissione della regione alle esigenze brasiliane e la seconda come un processo più equilibrato, è in pieno svolgimento, contrapponendo le imprese e la borghesia paulista (dell’area industrializzata di San Paolo) agli ambienti progressisti.

Infine vi è la discussione sulla “egemonia pacifica”, o “guida benigna” del continente da parte del Brasile, opposta all’egemonia “autoritaria”. Questo concetto fondamentale, sostenuto a parole dalle alte sfere militari e dalla diplomazia brasiliana, viene spesso rivestito dal manto della “Patria Grande” e della unità latinoamericana in chiave antimperialista tradizionale. Lo sviluppo delle relazioni tra il paese e i suoi deboli vicini (con le parziali eccezioni di Argentina e Venezuela) in questa nuova fase darà risposte a proposito, dato che al momento vi sono motivi per non escludere nessuna delle due versioni, quella “buona” e quella “cattiva”, del Brasile Potenza.

Pur sottolineando che esistano strumenti egemonici non meno violenti dell’intervento militare (dalla pressione politica alla guerra economica) Zibechi concede alle élite brasiliane di star perseguendo la propria strategia in forma meno aggressiva a quella a cui ci hanno abituati ad esempio gli Stati Uniti o la Russia, nelle sue varie incarnazioni.

I movimenti sociali

Ma Zibechi è anche interessato all’effetto che questa riconfigurazione dei rapporti di forza avrà sui movimenti sociali, sulla loro organizzazione e azione politica. Mentre l’espansionismo brasiliano potrebbe favorire “la unidad de los de abajo”, gettando i ponti per una alleanza regionale fra i movimenti sociali che ricalchi quella istituzionalizzata “in alto” con l’Unasur e diretta a favorire gli interessi brasiliani in tutto il continente, internamente la situazione suggerisce, almeno apparentemente, una sostanziale “pacificazione”.

I dodici anni i potere del Partito dei Lavoratori (che saranno 16 al termine del secondo mandato di Dilma Rousseff) hanno depotenziato i sindacati, la cui assenza di conflittualità è dimostrata dal drastico calo delle ore di sciopero, includendone le élite’ nella gestione del potere in una forma talmente nuova, quella dei fondi pensione, da squalificare il concetto di semplice “cooptazione”. Una ripresa della lotta sindacale si è osservata successivamente ad alcune scissioni nelle grandi centrali, che hanno dato vita a sindacati indipendenti, ma ne quelli né la grande mobilitazione degli insegnanti dell’autunno scorso, o le mobilitazioni sorte attorno ai cantieri delle grandi opere, mondiali e olimpiadi in primis, possono significare un cambio di tendenza generale nel rapporto tra lavoratori e governo.
Anche le occupazioni di terra del Movimento dei lavoratori Senza Terra (Mst), tradizionalmente vicino al PT ma suo feroce critico e pungolo, sono drammaticamente calate. Se da un lato ciò si può spiegare con l’aumento dei salari dei braccianti agricoli, dall’altro è il risultato di un aumento dell’espulsione dal campo dei lavoratori, destinati ad ingrossare le file dei poveri urbani o quelle dei manovali necessari alla realizzazione delle grandi opere, dove gli stipendi sono ai limiti della sussistenza. Zibechi pone l’attenzione anche sulla “Bolsa familia”, la famosa assegnazione universale per figlio che ha tolto milioni di famiglie dalla povertà estrema. Considerandola, come in generale i piani sociali, alla stregua di un palliativo temporaneo necessario più che altro alla pacificazione sociale, lo scrittore uruguaiano ne denuncia gli effetti per la popolazione rurale: fornisce un sostegno economico del tutto dipendente dalla attuale congiuntura economica e non da un reale ingresso nel mercato del lavoro, distruggendo al tempo stesso la possibilità che i contadini, organizzati dall’MST, accedano alla proprietà collettiva della terra e alla possibilità di una attività di lavoro dignitosa, e sostenibile, garantita dalla coltivazione.

Le più grandi speranze sono invece riposte da Zibechi nel movimento urbano, nel risveglio dei favelados, nelle grandi proteste per i servizi, i trasporti e le cure mediche che hanno toccato tutte le grandi città del Brasile nell’estate 2013 e 2014, trainate dalla vicinanza dei Mondiali di calcio.

Il ciclo di proteste iniziato nel 2013 determinano per Zibechi, che cita Gramsci, la fine del “consenso passivo delle classi subalterne” al governo del PT, una ripresa delle attivita’ dei movimenti sociali favorita dalla militarizzazione delle favelas e da una realtà di diseguaglianza sociale che trova molte delle sue cause proprio nel turbo sviluppo intrapreso dal Brasile Potenza.
BIBLIOGRAFIA

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Marini, Ruy Mauro, Subdesarrollo y revolución, México, Siglo XXI, 1974

Seibel LucE, Mathias, O subimperialismo brasileiro revisitado: a política de integraçâo regional do governo Lula (2003-2007), tesis de maestría en Relaciones Internacionales, Porto Alegre, Universidade Federal do Rio Grande do Sul, 2007

Zibechi, Raúl. Brasil potencia: entre la integración regional y un nuevo imperialismo. Ediciones Desde Abajo, 2012.

 

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