Perché l’Argentina è in crisi, di nuovo

Nel febbraio di tre anni fa, l’allora presidente del consiglio italiano Matteo Renzi dichiarava alla stampa: «L’Argentina è uno dei posti più solidi e stabili per possibilità di investimento». Evidentemente non aveva preso nota degli ultimi settant’anni. È un vero e proprio ritornello far coincidere la «decadenza argentina» con la storia che inizia con il primo governo peronista, nel 1945. Dare la colpa al peronismo è lo sport preferito della élite nazionale, ma qualcosa di vero c’è. Non nel senso che si tratti veramente dell’origine di tutti i mali, certo, ma il primo peronismo ha significato l’ingresso sulla scena politica delle masse lavoratrici, scompaginando quello che fino ad allora era stato un gioco ristretto alle classi dominanti. Da lì nascono le basi per quello che il gramsciano d’Argentina Juan Carlos Portantiero, animatore negli anni Sessanta della rivista Pasado y presente su esempio dell’Ordine Nuovo torinese, chiamerà «pareggio egemonico». L’espressione venne coniata in quel periodo per rappresentare il gioco impossibile della dominazione in Argentina, bloccato da un equilibrio egemonico tra differenti frazioni della borghesia alle quali si era aggiunta la classe operaia più combattiva del continente, organizzata in sindacati potenti e rappresentata dal peronismo sul terreno elettorale. I diversi tentativi di sbloccare questo pareggio forzando un disciplinamento della struttura sociale, il periodo dittatoriale del 1966-’69 e soprattutto del 1976-’82, ma anche la fuga in avanti neoliberista durata per tutti gli anni Novanta, si sono conclusi con un fallimento strepitoso e spesso suggellato da un’insurrezione popolare: il Cordobazo del 1969 nel quale Pasado y presente ebbe un ruolo importante, la sconfitta nella guerra delle Malvinas/Falklands nel 1982, le giornate epiche del «Que se vayan todos» nel 2001.

Con queste premesse, ci si sarebbe aspettata più cautela quando nel 2015 la coalizione di centrodestra Cambiemos si affermò con sorpresa alle elezioni presidenziali promettendo riforme neoliberiste. Al contrario, tutta Europa festeggiò, e gli altri potenti pure, da Obama alla Cina: l’Argentina «tornava al mondo». Come sempre, si considerò il risultato elettorale come un punto di non ritorno, una «fine della storia». E invece ci risiamo: in un attimo fuggente appena più lungo della parabola presidenziale dello stesso Renzi, il governo Macri è in rotta dopo la celebrazione delle primarie (Paso) dello scorso 10 agosto, che ha visto trionfare nuovamente il peronismo. Alla crisi politica, con un governo e un presidente in apnea per tre mesi (il passaggio di consegne sarà il 10 di dicembre) si aggiunge l’impennata di una crisi economica provocata anche dalle scellerate politiche del Fondo monetario internazionale che si trova a un passo dal trasformarsi, di nuovo, in una crisi di dimensioni storiche.

Il nuovo pareggio egemonico

Ma l’Argentina non è Macondo, le sue crisi ricorrenti non sono frutto del realismo magico, come traspare troppo spesso dai resoconti eurocentrati. Dipendono, piuttosto, dalle limitazioni strutturali di cui soffre il capitalismo locale in quanto economia periferica e dipendente, in combinazione con rapporti di forza complessi e forse unici nel continente. La crisi attuale nasce nel 2012, quando il volume del deficit fiscale e la frenata dei prezzi dei principali prodotti d’esportazione, commodities destinate al mercato asiatico, comincia a mettere sul tavolo la questione del ajuste, il classico adeguamento strutturale fatto di tagli alla spesa pubblica. Terminato lo straordinario boom delle commodities, l’economia argentina tornava a patire i problemi di sempre: insufficienza di dollari per pagare debito e importazioni, dipendenza dall’esportazione di prodotti primari con prezzi volatili, la debolezza della base industriale dopo la deindustrializzazione degli anni Settanta e poi Novanta. Se queste caratteristiche la avvicinano agli altri paesi della periferia latinoamericana, la presenza di una classe media consolidata e una forza lavoro con alti tassi di sindacalizzazione la rendono un caso a sé stante.

Ma il governo di Cristina Kirchner resistette alle pressioni, tentando di rimandare la crisi almeno a dopo le elezioni del 2015 agganciando i salari all’inflazione e contraendo debito per vie alternative, come gli swap con la Cina. Questa strategia segnalava una questione politica di fondo: il blocco da parte della sua base sociale di qualsiasi misura di austerità. Il «pareggio egemonico» si aggiornava così sotto forma dell’impossibilità da parte di un governo nato in una certa misura dal ciclo di lotte contro il neoliberismo, di cambiare radicalmente la sua politica per tentare di rilanciare l’accumulazione capitalistica, oltre quanto gli era già stato possibile.

Verrebbe facile la tentazione di parlare della cronaca di una morte annunciata, di raccontare che il governo Macri aveva la data di scadenza tatuata sul collo fin dai suoi primi giorni, date le premesse a partire dalle quali pretendeva di imporre una refundacion neoliberista dello stato e dell’apparato produttivo, contro un ciclo economico avverso e una classe lavoratrice e dei movimenti sociali rinvigoriti dagli anni kirchneristi. Ma sarebbe superficiale, nonché inesatto. C’è stato un momento in cui il governo sembrava avere il vento in poppa. A sole due settimane dalla desaparición del militante anarchico Santiago Maldonado il primo agosto 2017 in uno dei campi patagonici di proprietà di Benetton, il governo si affermava infatti trionfalmente alle Paso mid-term e pensò che il pareggio fosse solo un ricordo, superato da una nuova egemonia incipiente. Pensò che si potesse procedere spediti con il piano refundacional che accompagnava a una necropolitica repressiva scagliata contro il nuovo nemico interno composto da militanti politici e comunità indigene, un brutale attacco alle condizioni di vita delle lavoratrici e dei lavoratori: riforma delle pensioni, tributaria e del lavoro, oltre a nuovi tagli. Terminare l’ajuste, e portarlo a un nuovo livello, servendo alle classi dominanti quell’ulteriore precarizzazione della forza lavoro che esigevano da tempo.

Superato senza troppi problemi lo scoglio di un’opposizione debole, l’agenda reazionaria del macrismo ha finito per infrangersi, come spesso è successo nella storia argentina, contro una marea popolare. Nelle giornate di dicembre 2017, le cui immagini hanno fatto il giro del mondo, una massa combattiva e intergenerazionale ha presidiato per ore una Piazza dei due Congressi militarizzata, mentre i parlamentari asserragliati discutevano la riforma previdenziale, il primo pezzo dell’agenda. Dopo un rinvio dovuto all’intensità degli scontri fuori dal parlamento, la legge venne poi approvata, ma l’incantesimo si era rotto. Il governo pagò un prezzo politico altissimo, anche a causa della brutale repressione scatenata, mentre in serata la classe media porteña si univa alla protesta animando cacerolazos diffusi in tutta Buenos Aires. L’opposizione, divisa, fiutò in quel momento, tra gas lacrimogeni e richiami isterici alla responsabilità, l’estrema debolezza del macrismo, incapace di negoziare e convinto di una egemonia effimera. Da queI momento in poi il peronismo inizierà a gettare le basi per la riunificazione, individuando nelle elezioni del 2019 il punto di arrivo.

La risposta immediata del governo, invece di accelerare verso quello shock economico che i «falchi» e i mercati gli chiedevano fin dall’inizio, fu un’apparente marcia indietro. Rispolverò il gradualismo: le riforme economiche venivano definitivamente spacchettate e rimandate a data da destinarsi, i tassi di interesse abbassati e si paventava una ripresa degli investimenti pubblici. Tutto parve riacquistare una certa calma, senonché a giugno del 2018 il governo annunciò la firma del ventisettesimo accordo della storia argentina con l’Fmi, senza passare per il parlamento e prendendo un pó tutti di sorpresa.

La mossa aveva due scopi. Da una parte abilitare un poderoso dispositivo di disciplinamento, trasferendo la guida (e la responsabilità) del ajuste a un organismo esterno di tutela, cercando si scardinare il pareggio da fuori. Dall’altra, allungarsi la vita il più possibile, garantendosi per mezzo del prestito più grande della storia del Fondo il credito che cominciava a scarseggiare e potendo rimanere così a galla fino all’avvento del «momento economico», quando i frutti della ristrutturazione avrebbero dovuto iniziare a essere visibili e produrre consenso attorno alle misure di austerity. Succede però che i mercati si aggiungono alla schiera degli scettici, e si convincono gradualmente che il debito contratto si rivelerà impagabile, e l’Argentina dovrà ricorrere presto o tardi a un nuovo default. Da lí in poi è tutto in discesa: la bicicletta finanziaria dei flussi speculativi imprime un’accelerazione alla fuga di capitali, le riserve si riducono drasticamente e così anche i depositi privati in dollari, mentre ripetuti attacchi contro il peso producono una svalutazione dell’ordine del 300% che provoca un’impennata dell’inflazione durante tutto il 2019. L’ultimo rintocco per il progetto refundacional sono le elezioni di agosto, alle quali segue la reintroduzione dei controlli di capitale, il tetto ai prelievi in dollari e un default selettivo, estremo atto di resa del governo di fronte alla crisi e alla delegittimazione politica, simbolizzata dal consolidamento del candidato oppositore Alberto Fernández come interlocutore privilegiato del Fondo, degli investitori e della borghesia argentina.

Il pareggio è con il pueblo 

Se il peronismo è storicamente il partito delle masse, per la stessa ragione è anche il partito dell’ordine, l’unica possibilità, dimostrata l’inefficacia delle armi e dell’egemonia neoliberista, di ottenere una pace sociale se non ottimale almeno agibile per l’accumulazione capitalistica. Un’altra legge di ferro della consuetudine politica argentina recita: «Senza peronismo non si governa». In effetti, nelle presidenziali più votate cinque candidati su sei sono peronisti, con l’eccezione del presidente Macri. Il quale, a ulteriore conferma del pareggio, ha scelto come proprio vice l’ex presidente del gruppo parlamentare peronista per cercare di rimontare lo svantaggio elettorale, senza successo.

Lo scrittore boliviano Renè Zavaleta Mercado parlava negli anni Ottanta di come la società argentina avesse una «densità democratica» senza pari nella regione, individuando nell’equazione gramsciana dello Stato la risposta all’impossibilità della dominazione. Nella sua versione del «pareggio egemonico» la presenza di una società in fermento «soverchiava» continuamente la società politica, lo Stato in senso stretto, provocando crisi politiche cicliche.  Nella congiuntura attuale ci sono tracce della permanenza di questa particolare rapporto di forza, che proietta uno scenario tutt’altro che scontato per il peronismo alle porte della presidenza.

Se la società è tornata a mostrare recentemente di saper mettere limiti al governo, non solo nel dicembre del 2017 ma anche nelle manifestazioni oceaniche contro il 2×1 – lo sconto di pena per i condannati per terrorismo statale durante la dittatura – per Santiago Maldonado e per l’approvazione di una legge sull’aborto, gli stessi limiti valgono per il peronismo nel suo formato blindato, che si appresta a condurre una ricomposizione pacifica della normalità capitalista periferica. Le foto di Fernández con la dirigenza degli industriali e dei sindacati corporativi e i proclami di un «nuovo patto sociale» servono a pubblicizzare questa nuova normalizzazione, fatta di pagamento a rate di un debito illegittimo, recupero solo parziale del potere d’acquisto dei salari, potenziamento delle attività estrattive minerarie. Con l’allineamento della burocrazia sindacale e il ritorno all’ovile della borghesia industriale, acciaccata dalla nuova avventura neoliberista, si ripropone un’alleanza tradizionale della politica argentina, guidata questa volta da un peronismo centrista.

La battaglia portata avanti dall’ala sinistra del peronismo durante tutta la prima metà del 2019 per ottenere la candidatura di Cristina Fernandez de Kirchner si è scontrata con la dura realtà quando l’ex presidenta a fine maggio ha preso la clamorosa decisione di farsi da parte scegliendo il suo candidato: Alberto Fernández. Eppure, dopo mesi nei quali ha retto l’indicazione di «non fare troppo casino» in vista delle elezioni, la recrudescenza della crisi ha riportato le basi sul terreno della mobilitazione, mai abbandonato dalle forze della sinistra non peronista. È così che, nonostante i richiami all’ordine, un embrione di unità d’azione si sta ricreando nelle manifestazioni quotidiane che paralizzano il centro di Buenos Aires e che hanno forzato l’approvazione da parte del governo della legge per l’emergenza alimentare, mentre aumentano le frizioni dentro al fronte peronista con la componente legata ai movimenti sociali. Insomma, oggi come ieri «tutta la politica argentina si dirime nelle piazze e si processa successivamente nelle istituzioni». Lo stesso vale per le sue crisi, lontano da realismi magici.

Questo articolo è stato pubblicato originariamente su “Jacobin Italia”.

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