QUI, a partire dal minuto 1:09:00 potete ascoltare la chiacchierata che abbiamo fatto venerdì scorso con il buon Steven Forti all’interno di “Zibaldone. Un programma in italiano non solo per italiani” della storica radio libera barcellonese Contrabanda.
Lula, The Intercept, Moro, Bolsonaro e il momento catartico del Brasile. E non si parla di calcio…
Nell’ultimo mese, un reportage del sito “The Intercept” ha permesso all’opinione pubblica brasiliana di leggere le conversazioni private tenute da Sergio Moro, il giudice che ha condannato Lula alla carcere nel 2018, con il gruppo di procuratori dell’investigazione “Lava Jato”. Dalla lettura degli estratti emerge la connivenza tra il giudice e gli investigatori, uniti nello sforzo di estromettere l’ex presidente dalla campagna elettorale presidenziale dell’anno passato, in cui inizialmente era favorito, e al tempo stesso mantenere un’immagine di imparzialità. Se queste rivelazioni sono servite all’opposizione per richiamare l’attenzione sullo scandaloso processo che ha portato alla condanna di Lula, suggellato dalla nomina di Sergio Moro come Ministro della Giustizia da parte del neo presidente Bolsonaro, dall’altra non sono state considerate sufficienti dalla Corte Suprema (il “Supremo Tribunal Federal”) per riaprire il caso e liberare almeno temporaneamente l’ex presidente, in attesa di un nuovo pronunciamento che dovrebbe arrivare tra qualche mese.
Il nuovo scandalo, trasmesso praticamente a ciclo continuo dai media brasiliani, complice l’audienza alla camera del giornalista Glenn Greenwald e l’interrogazione parlamentare (di oltre 9 ore) del ministro Moro, sembra aver contribuito a far affiorare definitivamente le tensioni dentro il governo che, più o meno latenti, si sono osservate fin dall’insediamento di Bolsonaro. Lo stile spregiudicato del presidente ha causato non pochi problemi diplomatici e frequenti mal di pancia persino agli alleati conservatori e ai militari, mentre l’appoggio degli impresari e’ sembrato più volte scricchiolare di fronte alle difficoltà’ sperimentate dal governo nell’avanzare con le riforme richieste (su tutte, quella delle pensioni) e a manovre avventate come la recente firma di un accordo di libero scambio con l’Unione Europea, che più che un trattato e’ una resa incondizionata. Ciononostante, le principali arterie brasiliane si sono riempite negli ultimi giorni di manifestanti pro-governo, mostrando l’appoggio popolare che questo conserva e ribadendo che nella retorica anti-corruzione della destra Bolsonaro e Moro sono sinonimi, una accoppiata di “salvatori della patria” che non può e non deve essere fermata da nessuno, parlamento incluso.
La visione del parlamento come un intoppo -non dissimile dal Salvini pensiero di questi giorni- ha portato perfino a fischi ad esponenti di partiti di governo nelle recenti manifestazioni, e ha creato una spaccatura tra le frange più di destra e i “movimenti sociali anticorruzione” che occupano le piazze da anni, come il Movimento Brasil Livre, che ha rappresentanti in parlamento. La presenza di una corrente di forti tinte fasciste dentro il governo e nelle piazze è poi uno degli elementi che ha fatto scaturire recentemente un dibattito sulla natura del governo Bolsonaro, nel contesto più ampio della emersione di una “nuova destra” in Europa e Stati Uniti, considerato “neoliberal-autoritario” o direttamente “neo-fascista”. Sebbene Bolsonaro si inscriva nella tradizione delle dittature militari del Cono Sud, sia per storia personale sia per reiterata vocazione politica, la fase che sta vivendo il Brasile sembra più complessa, se non altro perché gli stessi militari hanno più volte ribadito di non gradire i riferimenti ad un eventuale loro rientro in scena per la porta principale. La situazione, oltremodo preoccupante, sembra essere uno scenario ibrido, in cui convivono l’ascesa irresistibile di un fascismo viscerale e violento, che si fonda sulla struttura razziale, patriarcale e patrimonialista del paese, ma che si nutre di elementi nuovi frutto della globalizzazione e della trasformazione avvenuta nella società con i governi del PT, con una resistenza sorda però caparbia e diffusa: quella delle donne, dei movimenti sociali e comunità indigene, di una base sindacale e partitica che, nonostante l’operato della dirigenza, non ha ancora abbandonato il paese come si augurava Bolsonaro in campagna elettorale. In fondo, se rifiutiamo le ottiche eurocentriche che ci consentono di vedere solo “realismi magici”, “repubbliche delle banane” e “miraggi tropicali”, comprendere la situazione di un paese che avrebbe eletto nuovamente presidente Lula e adesso si ritrova al comando “il capitano” (di nuovo, qualche coincidenza?), si rivela una sfida ardua eppure quanto mai necessaria.