Poco prima delle dieci di sera del 22 novembre, dopo che il suo avversario ha pubblicamente riconosciuto la sconfitta, il nuovo presidente argentino sale sul palco di un affollatissimo “bunker” elettorale. Dal soffitto cadono come d’abitudine palloncini gialli, musica pop nazionale in sottofondo. Mauricio Macri pronuncia poche parole, i primi gesti da presidente sono tutt’altro che cerimoniali. Ringrazia i convenuti e i votanti per avergli permesso di raggiungere il risultato, chiede di non abbandonarlo nella sua missione. Più che un leader politico sembra il vincitore di un Grammy o di un Oscar, impegnato a celebrare se stesso più che una forza politica, ora progetto di governo, che è ancora una nebulosa. L’atmosfera da programma di punta della domenica pomeriggio in Tv nasconde però alcuni piccoli velenosi dettagli, primi segnali di quella che nei giorni successivi apparirà sempre più come una sorniona rappresaglia di classe.
Prima Macri presenta al suo popolo la “segretaria” che lo conosce da sempre, una donna minuta che sale sul palco per 30 secondi, senza dire una parola. Si tratta ovviamente della sua baby-sitter, ed è l’unico squarcio di normalità in una foto altrimenti sequestrata da impresari, riciclati politici, gente famosa. Come si potrà immaginare, poche persone in Argentina dispongono di una baby sitter personale. Poi da’ una definizione collettiva del “popolo argentino” apparentemente neutrale, “quelli che sono scesi dalle navi”. Come suo padre Franco, romano naturalizzato argentino che ha costruito un impero fondato sul mattone e le quattro ruote.
Finito il breve discorso, la musica si alza e si riprende a ballare. Da lì a poco la compagine presidenziale trasferirà la festa, in forma più privata, ad una delle discoteche più snob della capitale.
Quelli che sembrano dettagli da nulla risultano essere dolorose pugnalate per un paese che negli ultimi 15 anni ė stato abituato ad una comunicazione politica incentrata sul “para todos, per tutti”. In cui sono state celebrate le origini indigene e la natura latinoamericana degli argentini, si sono aperti musei dedicati all’olocausto dei “popoli originari”, e le evidenti differenze di classe tra la élite’ politica e i cittadini sono state costantemente diluite nella peronistissima metafora del “popolo”.
Una cultura politica conservatrice, filo-europea e spesso razzista che per anni era rimasta in disparte, ridimensionata da una crisi che aveva spazzato via la classe politica direttamente vincolata alle politiche neoliberiste, riemerge ora come una delle grandi correnti costitutive dell’argentinita’, perfettamente incarnata da Macri, il primo presidente a definirsi “di destra”.
Il quadro è completato poi dalle nomine dei ministri che sono arrivate nei giorni successivi, tingendo il “cambio” che propone la coalizione vincente “Cambiemos” di una forte colorazione pro mercato.
Oltre al primo presidente a non aver studiato in una università pubblica (e a non essere un avvocato), il prossimo governo avrà anche un numero eccezionalmente alto di membri provenienti da consigli d’amministrazione di multinazionali, come l’ex Shell Aranguren nuovo ministro di energia e industria mineraria, l’ex J.P.Morgan Prat Gay alle finanze o l’assessore alle Politiche Agricole della Provincia di Buenos Aires Leonardo Sarquís, ex Monsanto.
Non tutto è perduto, però. La colazione del lunedì successivo alle elezioni è andata di traverso un po’ a tutti a causa di un editoriale incendiario del quotidiano conservatore “La Nacion”, che approfittando del nuovo governo di centro-destra chiedeva senza mezze misure la liberazione dei torturatori e omicidi incarcerati nell’ambito dei processi alla dittatura militare, e la fine della “vendetta” dello Stato contro i suoi servitori. Sorprendente il pessimo maneggio delle tempistiche, e dei toni, da parte del quotidiano, ma ancor di più la reazione di sdegno di massa, che a partire dagli stessi giornalisti della testata ha sommerso di critiche la direzione costringendola alle scuse.
La società in questi 13 anni è cambiata, e Macri non dispone di un mandato in bianco, soprattutto perché in un paese abituato ad elezioni vinte al primo turno (questo è stato il primo ballottaggio della storia, dopo che nel 2003 si era evitato a causa del ritiro preventivo dell’ex presidente Menem) una affermazione con il 51% è considerata una vittoria a metà. La bandiera elettorale dell’<addio al conflitto> sventola oggi nel mezzo di una società profondamente divisa, con cui bisognerà fare i conti. Soprattutto, la retorica pacificatrice dovrà provare la sua efficacia nel continuare a dissimulare l’alta conflittualità intrinseca al programma antipopolare che difende, fatto di tagli ai salari e sconti alle imprese.
Iniziano i guai per la sinistre di governo in America Latina?
Che quello di Cristina Kirchner sarebbe stato il primo tra i governi della regione che in questi anni sono stati definiti “popolari”, “progressisti” o “integrazionisti” a cadere nessuno avrebbe potuto onestamente prevederlo. A tre mesi dal primo turno, alle primarie di Agosto, l’unico candidato del governo Daniel Scioli aveva raccolto il 38,41% dei voti, dando l’impressione di poter vincere con tranquillità. Addirittura, una settimana prima delle elezioni del 25 ottobre i media egemonici stavano circolando la previsione che il ballottaggio sarebbe stato fra Scioli e Massa, peronista di destra, che avrebbe scavalcato Macri al fotofinish. Così non è stato. La maggioranza del 21% raccolto da Massa è confluito infatti verso il candidato di Cambiemos, anche se la vittoria finale è risultata più magra di quanto previsto dopo il primo turno (2,8 %, circa 700.000 voti).
La sfida, vinta dall’ex sindaco di Buenos Aires, è stata quella di trasformare un partito “localista” in una forza nazionale, allargando la sua influenza al centro del paese, dove si concentra la maggior parte della popolazione argentina. Se si dà uno sguardo alla distribuzione di voti, si può infatti notare una “spaccatura” del paese molto simile a quella osservabile nelle elezioni presidenziali brasiliane del 2014. Il partito “federale” rimane il peronismo, che vince in tutto il paese, da nord a sud, e nelle provincia più povere, mentre Cambiemos si afferma conquistando la citta di Buenos Aires e alcune grandi metropoli (Cordoba, Mendoza), e con una buona prestazione nella fondamentale provincia di Buenos Aires, dove vive il 37% dei votanti a livello nazionale. Oltre alla “prima volta” del ballottaggio, si assiste alla situazione inedita di una coalizione che controlla la presidenza e contemporaneamente anche la Capitale Federale (dal 2007 baluardo di Cambiemos, conquistata nuovamente nel 2011 e 2015) e la Provincia di Buenos Aires (sotto controllo peronista praticamente dal ritorno della democrazia), vero “shock” concretizzatosi nel primo turno del 25 ottobre, quando Maria Eugenia Vidal ha sconfitto il portavoce del governo Anibal Fernandez e ottenuto la poltrona che è stata dello stesso Scioli dal 2007 al 2015). Alla vittoria nelle tre elezioni più importanti del paese fa da contraltare pero’ la situazione traballante che vige nel congresso. Qui l’alleanza non controlla infatti nessuna delle due camere, e al Senato l’ex coalizione di governo ha addirittura quorum proprio.
Sul piano internazionale, invece, il nuovo governo ha esordito scegliendo il conflitto senza mezzi termini. Macri ha iniziato da subito a “fare i compiti” in campo diplomatico, anche per distanziarsi immediatamente dalla recedente gestione. Il giorno successivo alla sbornia elettorale ha infatti ripetuto quella che nel dibattito televisivo di domenica 15 era sembrata poco più che una boutade: applicare la clausola democratica dello statuto dell’Unasur e chiedere l’espulsione del Venezuela, adducendo violazioni dei diritti umani circa l’incarcerazione del leader dell’opposizione Leopoldo Lopez. Difficilmente Macri potrà andare fino in fondo, ma il tentativo di influenzare le elezioni parlamentari che si svolgeranno venerdì in Venezuela e rilanciare la destra sudamericana in affanno da più di quindici anni è evidente.
Il processo di integrazione regionale sviluppatosi in questi anni si fonda infatti sull’alleanza tra Brasile e Argentina, con il Venezuela appena un passo indietro, un sodalizio in graduale costruzione dagli anni ’80, sulle ceneri di una storica conflittualità, che deve pero’ molto alla recente sintonia tra i presidenti Lula da Silva e Nestor Kirchner e alla comunanza di vedute tra i rispettivi partiti.
Ora, anche se il neoeletto presidente ha annunciato che il suo primo viaggio internazionale sarà in Brasile, partner irrinunciabile dell’Argentina, le cose cambieranno. Macri potrebbe approfittare dei problemi di governabilità in Venezuela e in Brasile (dove la presidentessa Dilma è stretta tra tentativi di impeachment in seguito allo scandalo Petrobras e il malcontento popolare per i recenti tagli alla spesa pubblica) per forzare una relazione più “pragmatica” e molto meno politica. Non è un mistero fra l’altro che il neoeletto presidente veda di buon occhio un avvicinamento argentino alla “Alleanza del Pacifico” (Cile, Colombia, Messico, Perù) diretta concorrente del Mercosur (Argentina, Brasile, Paraguay, Uruguay, Venezuela) e anche al nuovo “Accordo Transpacifico” di libero scambio, promosso dagli Stati Uniti e che dovrebbe unire l’Asia e il continente americano.
Infine è difficile che il nuovo governo di centro-destra continui con lo stesso fervore quella battaglia di dignità che è il braccio di ferro con i “fondi avvoltoi”, gli speculatori internazionali che tengono finanziariamente in scacco l’Argentina, ufficialmente definita “in default”, possessori di una infima parte del debito internazionale che il paese aveva nel 2001.
Nonostante la scelta di non pagare agli speculatori sia stata oggetto di ferventi critiche in campagna elettorale, ora Macri dovrà stare attento a non rinnegare la sue promesse senza però riaprire una rinegoziazione del debito di successo, che ha ricevuto da poco il sostegno dell’assemblea generale dell’Onu, impegnata ad elaborare un regolamento di riferimento per casi di questo tipo.